Memoria di Giuseppe Campanelli sulla battaglia di Purocielo

Giuseppe Campanelli, nato a Zola Predosa nel 1922
Medico
Militò nella 36ª brigata Garibaldi
Ha pubblicato “nè paga, né quartiere”, Rizzoli, 1966; edizione scolastica Sansoni, 1981 a cuda di Vico Faggi.
I suoi ricordi: https://storiedimenticate.wordpress.com/2013/08/18/giuseppe-campanelli/

Il racconto che segue è tratto dalla sua pubblicazione, pp. 117-137 (pubblicato anche in formato pdf nella pagina https://www.storiaememoriadibologna.it/files/vecchio_archivio/seconda-guerra/c/campanelli_purocielo.pdf)

OTTOBRE, 8
Ieri siamo stati a Ca’ di Malanca. Da qualche segno e da qualche informazione pareva al comando che fosse imminente un attacco degli inglesi in quella zona e Bob ha deciso di spostarci alcune compagnie, fra cui la nostra per prendere i tedeschi alle spalle non appena gli altri avessero cominciato a muoversi, sperando così di indurli ad allargare gli obiettivi dell’azione, facilitando loro il compito.
La speranza si è rivelata illusoria; e tutto quello che ci abbiamo guadagnato è stato un bombardamento d’artiglieria (inglese) che chiamare pesante è dir poco e che ci ha tenuti tutto il pomeriggio con la pancia nel fango, in mezzo a un nebbione che rendeva la faccenda ancor più paurosa.
Tutto è finito lì, gli inglesi non si sono mossi di un pollice; e alla sera le compagnie sono ritornate a Cavina.
Io ho dovuto fermarmi a medicare due feriti e sono ripartito all’alba.

OTTOBRE, 9
Anche oggi uno scontro e due morti. La situazione si aggrava sempre di più, c’è da aspettarsi che i tedeschi tenteranno presto di togliersi dalle spalle del fronte, una volta per tutte, questa grossa spina partigiana. Attaccheranno in forze e sarà una tragedia, perché questi posti non si prestano certo a una difesa.
Ormai bisogna prendere una decisione e Bob ha convocato tutti i comandanti di compagnia.
Il pensiero di Bob è molto chiaro: dobbiamo restare uniti, tenere duro fino a quando gli alleati non riprenderanno l’avanzata e noi potremo scendere in città, a guidare l’insurrezione, a proteggere le ragioni per cui ci siamo battuti. Ogni altra soluzione significa il disarmo, la smobilitazione, la dispersione. Non c’è da farsi illusioni in proposito: insegna l’esempio di quanto è accaduto ai partigiani di Firenze e ai nostri stessi compagni del terzo battaglione, disarmati dopo che consegnarono il Monte Battaglia agli americani e lo difesero poi tre giorni assieme a loro.
E allora tutto quello che abbiamo fatto fin qui sarà stato inutile: inutile tutto questo correre per i monti, inutile tutto questo ammazzare e morire.
I comandanti di compagnia sono, naturalmente, d’accordo con le considerazioni di Bob; ma fanno presente che la situazione rende impensabile una resistenza a tempo indeterminato, da qualunque punto di vista la si guardi: le armi, le munizioni, il vestiario, i medicinali, il vettovagliamento, la configurazione del terreno. Sperare che l’avanzata alleata riprenda presto è un’illusione: fra poco sui passi cadrà la prima neve e allora se ne riparlerà in primavera. No, l’unica via di uscita possibile è l’attraversamento delle linee: non ci sono alternative.
Per passare il fronte ci sono due possibilità: o attraversare la Faentina e cercare più a est, nel Forlivese, un punto dove si possa andare dall’altra parte con relativa facilità; o sfondare qui, all’estremo sud del nostro schieramento.
Bob è favorevole a quest’ultima soluzione: l’attraversamento della Faentina è pericolosissimo, può finire in un massacro. Inoltre, attaccando qui con settecento uomini, si arriverà a scardinare un settore di fronte particolarmente delicato per gli alleati e quindi si potrà sperare in un trattamento diverso da quello che certamente avremmo se ci presentassimo alle loro linee come profughi in cerca di salvezza; chissà, può anche darsi che ci concedano di restare in linea.
Bob prepara rapidamente il piano.
Si attaccherà domattina a Ca’ di Malanca, partendo dalla valle del Co’, di sorpresa e con pochi uomini, alla partigiana, dato che non abbiamo artiglierie per fare la preparazione. Appena aperto un varco interverranno ad allargarlo, una dopo l’altra, a spallate successive, tutte le undici compagnie.
Alla fine dell’operazione il caposaldo tedesco sarà nelle nostre mani e potremo consegnarlo agli inglesi.
La notizia, portata dai comandanti nelle compagnie, suscita un grande entusiasmo. Domani sarà dura, ma, se andrà bene, prima di sera saremo fuori dai guai. 0 dente o ganascia.
Al tramonto inizia la marcia verso la valle del Rio di Co’ che raggiungiamo al buio.
È una piccola valle che a nord confluisce nella contigua valle del Lamone, mentre a sud è chiusa dal massiccio di Ca’ di Malanca, dove nasce il torrente Co’: là c’è il fronte che dovremmo attaccare.
Questa valle è separata da quella del Sintria da un crinale sormontato da un rudere medioevale, il Torrione di Calamello: che alla luce della luna (stanotte appare ogni tanto fra pigre sfilacciature di nubi) sembra la copertina platealmente sinistra di Un brutto romanzo popolare.
Il posto dove ci siamo fermati, sul versante orientale della valletta, ha un nome dolcissimo, Purocielo; che però, pronunciato in romagnolo – purzil -, suona come “porcile”.
La casa in cui abbiamo preso alloggio si chiama Piano di Sopra; qualche centinaio di metri più a valle, a Ca’ di Gostino, si è sistemato il comando; quasi un chilometro più a monte, sempre sul versante est, c’è la compagnia di Ettore, in una casa detta di Monte Colombo.
Tutte le altre compagnie sono schierate sul versante opposto, quello di Calamello, e tutte più a monte.
Noi quindi saremo gli ultimi a entrare in battaglia, domani; probabilmente ci toccheranno dei compiti di rastrellamento.

OTTOBRE, 10
Abbiamo aspettato fino alle quattro del pomeriggio, con le armi pronte, raccolti attorno alla casa, sotto una maligna rada nebbiolina piovigginosa; abbiamo aspettato, inutilmente, che qualcuno ci portasse l’ordine di andare.
Abbiamo sentito, in distanza, il rumore del combattimento, lunghe fitte scariche di armi automatiche, poi scoppi di granate e di shrapnel; poi, il silenzio.
Ora vediamo scendere Bob a cavallo, le spalle curve, la testa china sul petto: non risponde ai nostri saluti, nessuno ha il coraggio di chiedergli niente.
Arrivano le notizie. È andata male.
Quaranta volontari, scelti nelle compagnie di Amato e di Pirì, hanno attaccato stamattina di sorpresa, disposti a cuneo. L’operazione, diretta personalmente da Bob e appoggiata dal fuoco di due Breda, è cominciata alle dieci.
Quei quaranta partigiani si sono battuti da belve e i tre uomini di punta, Boci, Proni e Mao hanno fatto cose da medaglia d’oro (Proni è morto, Mao, con la pancia bucata, ne avrà per poco e Boci è ferito a un piede), ma non sono riusciti a sfondare. Ci sono stati altri morti, cinque; e una decina di feriti, che sono stati ricoverati a Poggio Termine, una casa situata sull’altro versante dove il dottor Ferruccio e il dottor Renato (i quali non erano riusciti a raggiungere i loro battaglioni) hanno organizzato una provvisoria infermeria; e dove si è poi ritirata la compagnia di Amato. Perché a dare il colpo di grazia all’operazione ci si è messa anche l’artiglieria, prima quella tedesca poi quella inglese; e a Ca’ di Malanca non ci si poteva più stare.
Prima di buio ceniamo, con pane e noci. Mangiamo in silenzio, preoccupati, con i pensieri rivolti al nostro incerto futuro.
Ora che i tedeschi hanno visto che razza di casino possiamo combinargli alle spalle del fronte faranno certo ogni sforzo per liberarsi della nostra presenza.
Stanotte tutta la compagnia sarà impegnata in servizio di pattuglia, una metà fino a mezzanotte, l’altra da mezzanotte all’alba. Esco col primo turno, comandato da Raf.
Sotto la pioggia, camminando nel fango, facciamo la spola per cinque ore fra la nostra casa e quella del comando: è tutto tranquillo. Quando smontiamo, fradici e tremanti di freddo, ci buttiamo a dormire sul pavimento, ammucchiati attorno al focolare dove qualche brace semispenta dà ancora un’illusione di calore

OTTOBRE, 11
Qualcuno sta cercando di svegliarmi. Il torpore del dormiveglia si popola di figure che corrono agitate, di grida confuse; poi una frase chiara, netta, mi desta del tutto: «Allarme, allarme, i tedeschi in casa!».
Proprio in casa no. Ma quasi: dalla parte del pozzo scoppia, altissimo, un furibondo intreccio di raffiche.
A pezzi e bocconi veniamo a sapere che cosa è successo.
Poco fa, neanche mezz’ora, i tedeschi (evidentemente accompagnati da qualcuno del posto) si sono fatti sotto Ca’ di Gostino, in silenzio. Stava in quel momento uscendo Attila, a cavallo, andava a raggiungere la sua compagnia, sull’altro versante; non era neppure arrivato al torrente che l’hanno abbattuto, colpito alla gola; è riuscito a impugnare il mitra e a scaricare qualche colpo, prima di morire.
Dentro il comando hanno appena fatto in tempo a correre alle finestre, li avevano già addosso. In pochi minuti ne sono morti sei, uno sull’altro: penultimo Roberto il Vecchio, ultimo il colonnello Saba che, in piedi davanti alla porta, ha vuotato non so quanti caricatori di fucile prima di cadere.
A questa inaspettata e disperata reazione gli attaccanti si sono fatti indietro di quel tanto che ha consentito ai nostri di sganciarsi, ultimi Bruno e Bob; Ivo, il comandante del secondo battaglione, un bel ragazzo irruento, generoso, si è attardato a coprire i compagni ed è caduto, con le gambe stroncate: ha sparato ancora, con lo Sten e poi con la pistola, fino al penultimo colpo; e l’ultimo se lo è tirato in testa.
I nazisti, imbaldanziti dal successo riportato a Ca’ di Gostino, appena frenati dalle raffiche del moribondo Ivo, si buttano sulla nostra casa; ma in quel momento sta rientrando dalla pattuglia l’altra metà della compagnia, guidata da Tito; e riesce a respingerli. Purtroppo il mitragliatore di Cesco s’inceppa al primo colpo e non c’è più modo di farlo funzionare: era l’unica automatica lunga che avevamo a disposizione.
A Ca’ di Gostino è rimasto Rodriguez il baritono, nel fienile, con la febbre a quaranta, polmonite e pleurite; naturalmente lo diamo per morto. (Lo salvò, invece, una contadina della casa: che dapprima riuscì a tenerlo nascosto, poi, più tardi, lo fece passare per suo figlio; e disse che era gravemente ammalato, di tisi galoppante, così che i tognini girarono prudentemente alla larga. Quella donna aveva perso, poco tempo prima, un figlio, caduto nella banda di Corbari).
Ora, dentro e attorno alla casa, i partigiani sono una settantina: la compagnia di Tito, i superstiti del comando, una squadra di Ettore scesa da Monte Colombo in nostro aiuto. Gli assediati hanno una decina di mitra, due o tre bombe a mano a testa, i colpi contati: non hanno mitragliatrici. Fuori gli attaccanti, tedeschi e un reparto di brigata nera, sono cinquecento, quasi tutti armati di automatiche, con una mitragliatrice ogni squadra, munizioni e bombe a volontà.
Fra i partigiani pochi hanno esperienza di combattimenti; i nazifascisti sono reparti speciali, da rastrellamento, professionisti della guerra.
La casa è situata a un terzo di costa (a meno di trecento metri dal torrente, che guarda con la facciata posteriore) sul pendio erboso, nudo, che termina in alto al crinale della Faentina. A destra, guardando il torrente, ci sono il pozzo e il forno: qui si sono appostati il capo di stato maggiore Bruno, il commissario Tom, il vicecommissario Moro, Nerio del comando, Galuppo, Agadir, Mario il Milanese, Dante, Cesare. La maggior parte dei partigiani è dentro alla casa; e ci sono anche i cinque tedeschi prigionieri, gli faccio la guardia mentre aspetto i primi feriti (li lasciammo perdere, poi, dimenticandoli nella furia del combattimento; e si poterono riunire ai loro, salvi).
Fuori, sulla sinistra della casa, Ligure ha alzato in piedi una cassapanca e spara tranquillo dietro quell’illusorio riparo come fosse una corazza da tre pollici.
Bob lo vede e gli urla, bestemmiando, di buttarsi a terra.
I tedeschi hanno sospeso l’assalto ma continuano a sparare con tutte le armi. Sulla facciata posteriore della casa battono dal torrente con numerose mitragliatrici, contro il muro che sembra che grandini.
I nazifascisti tentano l’aggiramento. Risalendo il fondo del torrente, protetti dalle sue rive incassate, cercano di prenderci sulla sinistra. Raf, Tonfo, Rico, Tonino e Ligure corrono a Ca’ di Marcone, un casolare poco distante da noi, sulla nostra sinistra; vi si appostano e riescono a fermarli.
Mi portano Ligure, pallido, con gli occhi sbarrati, la faccia sanguinante: l’hanno preso al mento, di striscio ma abbastanza profondamente, deve aver sentito un bel colpo.
Lo pulisco, lo disinfetto, gli metto una garza e un cerotto.
I tedeschi tentano ancora sulla destra e vengono ancora respinti. Muore il nostro vicecommissario Moro, colpito alla testa mentre sta sparando.
I tedeschi riprovano sulla sinistra. Corrono di rinforzo a Ca’ di Marcone Tito con una squadra e la squadra di Ettore. Gli attaccanti trovano subito del duro. Tito e la sua squadra, con alcuni di Ettore, li battono a distanza; quelli che si fanno sotto l’aia, che è rialzata, sono presi a bersaglio da Raf e dal Toscano, uno di Ettore, che si sono appostati alle finestre; infine quelli che girano di lato per un sentiero che porta direttamente dietro alla casa vanno letteralmente a sbattere contro tre di Ettore che, in piedi, li massacrano con gli Sten.
Balota, da dietro il porcile, spara ridendo e commenta con scherzi e parolacce ogni colpo che parte.
II fuoco delle mitragliatrici che batte la nostra casa cessa di colpo. Ma non è un buon segno, Bob l’ha capito subito: vuol dire che tentano l’assalto frontale, dal torrente.
Il comandante della compagnia si slancia su per la scala, al piano superiore, e fa segno ad alcuni di noi di seguirlo. Nel grande stanzone si affaccia a una delle tre finestre che danno sul ruscello, sporgendosi con tutto il busto e puntando avanti, a braccia tese, la Maschinenpistole. Si tira indietro scuotendo la testa, sono troppo distanti per un mitra, ci vogliono dei fucili. Ci fa appostare e ci ordina di tenerli lontani.
Vengono avanti a scacchiera, in piedi; sono vestiti di verde mimetico, piccoli per la distanza. Ai primi colpi ripiegano, alcuni restano stesi sul prato come grosse salamandre. Ma ridanno subito fiato alle mitraglie, i davanzali si scrostano sotto i colpi e noi ci ritiriamo negli angoli della stanza per defilarci. Sul muro di fronte alle finestre le raffiche tracciano file di buchi, rossi di mattone nudo.
Mi vien voglia di fumare, una voglia feroce. Riesco a farmi una specie di sigaretta con briciole di non so che cosa che trovo rovesciando una tasca e con un pezzo di carta. L’ho appena accesa che entra Tom, ridente, come trasfigurato, con lo Sten in mano, i riccioli corti che gli cadono sugli occhi: «Carogna, tu fumi!… Dammi, ti riporto la cicca, ti giuro… Faccio un salto al pozzo, pare che vengano ancora…».
Non pare. Vengono. Raffiche furiose di mitra, colpi sgranati di fucile, urla irose in tedesco: «Vorwarts! Vorwarts!».
Ancora sono respinti. Ma Tom non mi riporta la cicca: l’hanno preso, alla gola e al petto. Lo trascina dentro Bob che, da sotto, mi chiama; ma appena mi chino a guardarlo il nostro commissario da l’ultimo respiro, in un gorgoglio di sangue.
Uno si butta sull’aia spazzata dalle raffiche a ricuperare il suo Sten.
Pare proprio che siamo agli ultimi, i partigiani sparano sempre meno, gli attaccanti sempre di più. Ci sono poche probabilità di uscirne vivi; ma rassegnarsi non è facile.
«Cristo, non li faremo entrare!», dice uno. «Le porte sono due, voglio vedere come faranno a venir dentro per ammazzarci!».
«Se avessimo molte, moltissime bombe a mano» risponde un altro e potremmo anche tenerli fuori. Ma così…».
Già. Ai partigiani manca sempre qualcosa. Anche per non morire.
Ritirarci. Ma dove? La via della salvezza è al di là del torrente, ne siamo tagliati fuori. Alle nostre spalle un pendio scoperto, poi, oltre il crinale, la Faentina; e la Faentina è piena di tedeschi…
Bob, agitato, corre da una stanza all’altra e urla in romagnolo ordini e incitamenti che non si capiscono bene.
A Ca’ di Marcone sono morti due di Ettore e Tonio è rimasto ferito, una caviglia fracassata.
Ma le compagnie schierate sull’altro versante, perché non vengono ad aiutarci? Inutile sperarlo, quelle debbono tenere a ogni costo la dorsale del Calamello: se ci salta è finita per tutti.
Oggi tocca a noi di Tito di tenerci addosso tutto il peso della battaglia: ieri eravamo segnati per ultimi, oggi siamo i primi.
I tedeschi provano ancora, a tenaglia stavolta, attaccando tanto sulla sinistra che sulla destra; e ancora vengono respinti. Muore Galuppo. Muore Mario il Milanese. L’uno accanto all’altro, colpiti alla testa mentre stanno sparando. Stanchi di tanti inutili e costosi assalti (devono già avere un bel po’ di morti…) i nazisti tentano l’aggiramento completo e fanno scendere dal fronte due colonne, una lungo il crinale della Faentina, l’altra lungo il torrente.
Capita la manovra Bob manda una staffetta a Ca’ di Marcone con l’ordine di ripiegare in qualche modo, poi ci butta letteralmente fuori di casa: in piedi nell’aia, con urla e bestemmie, ci indica la via della ritirata: salire il pendio, obliquamente, verso sud; più avanti, molto più avanti, c’è un fosso incassato e coperto da folti cespugli, che scende al torrente. Arrivarci, presto, prima che la tenaglia si chiuda.
Anche da Ca’ di Marcone si ritirano, anche loro obliquando in salita verso il fosso miracoloso. Ma Raf e il Toscano, nelle stanze di sopra, non se ne accorgono; in quell’inferno di spari non si sono accorti di nulla, né che due di Ettore sono morti, né che gli altri si sono ritirati, né che i tedeschi ora, accucciati sotto l’aia, gettano granate a profusione. E continuano imperterriti, impegnatissimi, nel loro tiro a segno. Finché una bomba a mano infila la finestra e scoppia su un letto, riempiendo la stanza di piume. Allora si buttano per le scale. Il Toscano apre la porta con un calcio e rafficando lungo scava a Raf un tunnel di fuoco; ma quando a sua volta esce, viene abbattuto.
Appena usciti da Piano di Sopra non va neanche tanto male. I tedeschi non se ne sono accorti e continuano a mitragliare sulla casa, che, in un certo modo, ci copre. Mi trovo accanto Rico che arranca, pallido, col fucile in spalla. «Dottore, aiutami, sono ferito.» «Ma va!… Dove?» «Qui, nel petto…». Si scosta la camicia, mi mostra un piccolo buco, a sinistra, quattro dita sopra il capezzolo.
«Sta’ calmo, non è grave. Lalla ci ha girato due ore così, alla Bastia… e si è salvato… Stammi vicino, appena arrivati ti faccio una puntura.» Già. Ma arrivati dove? E una puntura di cosa? (Mi accorgo solo ora, fuori, che è una magnifica giornata: il cielo, lavato da tanti giorni di pioggia, è di smalto, il sole sfolgora sfacciato, trionfante. E laggiù, a nord, i paesi lontani, miraggio ormai irraggiungibile, brillano bianchi nel terso verdeazzurro della pianura…
Che brutto giorno per morire, un giorno così bello!)
Gli ultimi a uscire da Piano di Sopra sono Cesco e Carlino. Tardi, non hanno sentito l’ordine di sganciamento, i tedeschi stanno già arrivando sull’aia.
Cesco, scaltro di natura e scaltrito dalle battaglie di Russia, si salva correndo a zig-zag e voltandosi ogni tanto a sparare col Mauser; Carlino, più inesperto, corre troppo diritto, nonostante le ammonizioni che gli urla il compagno: lo circondano e lo catturano. (Trovarono pochi giorni dopo il suo cadavere fucilato alla Certosa di Bologna; lo trovò, per caso, proprio suo fratello, che fa il marmista).
I nazifascisti ci hanno visti e ci sparano con le mitragliatrici. Ci mettiamo a correre, su questa erba nuda e scivolosa è come essere alla fucilazione.
Bruno, agitando stretta in pugno la pistola tutta infangata, grida di non scappare così, di fermarsi un poco a sparare. Giorgio si inginocchia e scarica qualche colpo di Mauser verso la casa.
Stiamo correndo troppo diritti verso il crinale quando troviamo una lunga cunetta, una specie di avvallamento di terra rossa, nuda, appiccicosa, come una ferita nel fianco verde della collina. Mi butto a terra, ci trovo altri quattro o cinque sdraiati, appiattiti là dentro: Subitén, Pucci, Balota, Ruggero, il veterinario del comando Ferruccio. C’è anche Amedeo, che sta cercando di immobilizzare con dei rami la gamba di Tonio; e Rico, che respira affannosamente, pallidissimo, la faccia coperta di un brutto sudore.
Do una mano ad Amedeo e la giacca mi si imbratta di sangue.
«Sparateci, per favore, sparateci in testa, non lasciateci vivi ai tedeschi…» gemono i feriti.
Già. E chi ne ha il coraggio?
Pucci ha lo sguardo smarrito, assente: è ferito, un piede trapassato. Tetano quasi sicuro, saranno quindici giorni che non ci leviamo gli scarponi. Gli dico di scalzarsi, almeno ripulirgli un po’ la ferita. Mi guarda come se fossi impazzito: proprio il momento di cavarsi una scarpa, questo…
Raf tenta faticosamente di risalire il pendio. L’hanno visto, gli sparano addosso, non lo perdono di mira un momento; ma lui fa acrobazie per raggiungere i suoi uomini, a un certo punto deve aprirsi la strada sparando. Finalmente ci riesce.
Tutti quelli che erano a Ca’ di Marcone sono ora sotto la casa di Monte Colombo, vicino al crinale. Raf indica loro il fosso e quelli cominciano a discendere verso il torrente, verso la sperata salvezza.
Amedeo ha finito con Tonio. Arriva qui Raf e insieme a lui e a Ruggero il nostro infermiere tenta di portare in salvo i due feriti: ma è impossibile, si passa solo correndo a zig-zag e strisciando. I tre nascondono i feriti in una macchia, sperando di poter venire a prenderli più tardi. Ma la situazione peggiora ulteriormente, il fuoco aumenta e alcune squadre di tedeschi cominciano a salire dal Co’ verso Monte Colombo per tagliare la via della ritirata. (Rico e Tonio, venuti insieme da Ravenna, a Ravenna non ci torneranno: i tedeschi li scoprirono e li uccisero sul posto.)
Il fuoco investe ora in pieno la casa di Monte Colombo e anche il resto della compagnia di Ettore inizia lo sganciamento; sganciamento che si fa di minuto in minuto più difficile, bisogna ormai passare in mezzo ai tedeschi che salgono in direzione opposta. Medardo si apposta e protegge il ripiegamento di un gruppo sparando senza interruzione col moschetto, a tiro mirato, un caricatore dopo l’altro.
Ateo (l’unico superstite dei tre di Ettore che sparavano in piedi a Ca’ di Marcone) cade, colpito alla testa. Non è morto e Athos, Delano, Raffles, Benvenuto cercano di soccorrerlo; ma lui li caccia via: «Per me è finita, scappate, scappate, posso ancora proteggervi…».
Quasi cieco brancola per afferrare lo Sten e vuota a raffiche lunghe tutto un caricatore.
Quasi tutti hanno ormai preso la via della ritirata verso il Co’; ma non tutti riescono a raggiungere il torrente, qualcuno deve fermarsi e nascondersi in qualche piccola macchia vicino al fosso.
Penultimi tentano la salvezza Mauro e Giorgio: presi a bersaglio da un cecchino ci riescono, correndo alla disperata e coprendosi a vicenda; a Giorgio alcuni proiettili bucano i vestiti.
Ultimi, Amedeo e Tonino: si trovano addosso i tedeschi che li rafficano di Machine da pochi metri. Sparando riescono a farsi un po’ di largo, ma solo Tonino passa, Amedeo rimane isolato in prossimità del crinale.
Accucciato vicino al torrente Tito è riuscito, sparando con lo Sten, a tenere un po’ lontani i tedeschi che scendono il Co’ dal fronte; e ora aspetta che i suoi uomini attraversino il corso d’acqua per seguirli. Guardandoli passare gli si stringe il cuore: saranno sì e no una decina. Non può sapere quanti siano i morti e quanti gli sbandati, ma si rende conto benissimo di che disgrazia è toccata alla sua compagnia. Alzando gli occhi vede che i suoi partigiani dovranno percorrere un lungo pendio scoperto sull’altro versante per raggiungere Poggio Termine, la casa dove sono alloggiate le compagnie di Amato e Dino (che hanno, sì, iniziato un tiro di copertura con le mitragliatrici; ma la sua efficacia è più che altro psicologica, data la distanza e il timore di colpire i nostri, ormai frammischiati ai tedeschi).
Tito osserva a lungo quel pendio micidiale e teme che possa diventare la tomba dei superstiti. Allora decide di attirare su di sé l’attenzione del nemico, tanto più che può sparare molto, è riuscito a rimediare sette caricatori e parecchie bombe. Comincia a discendere il Co’, ma non incontra nessuno fino a Ca’ di Gostino: qui lo vedono e cominciano a tirargli addosso. Tito risponde al fuoco e. duellando così a breve distanza con gruppetti sempre nuovi di tedeschi, riesce finalmente a portarsi sulla strada di Poggio Termine.
In prossimità del crinale sono rimasti gli ultimi due gruppetti della nostra compagnia: vicino a Monte Colombo, Nikolaj, Michel, Carabiniere, Delmo, Dante, Cesare; e più a valle, appiattiti nella cunetta di terra rossa, sono con me Balota, Subitén, Pucci e Ferruccio del comando (non ho mai compreso perché siamo rimasti per ultimi, se attardati dai feriti o se perché, come hanno detto dopo, eravamo l’ultima retroguardia).
A un certo punto ci vedono e si scatena l’inferno: ci tirano con le mitraglie da Monte Colombo, dal torrente, dalle case che abbiamo abbandonate, tutto il fuoco tedesco è per noi, le pallottole si incrociano sulle nostre teste in una fitta ragnatela di ronzii e di sibili. Da sotto la cunetta si drizza come un fantasma Nico, un SAP che si è aggregato a noi in questi giorni: «Siamo circondati!».
Gli fa eco uno, dal gruppo: «Siamo perduti! Si, salvi chi può!». Quel grido fa precipitare il panico, che fino a quel momento siamo riusciti più o meno a dominare: disperatamente, in linea retta, corriamo in salita verso il crinale, inseguiti dalle raffiche che ci sollevano attorno fitti spruzzi di terra, il cuore che batte impazzito, gli occhi pieni di lampi rossi… Cado, perdo il moschetto, non mi fermo a raccoglierlo… Dietro di me due ansano come cavalli…il rumore del loro respiro anelante sembra coprire quello degli spari…
Raggiunto il crinale mi rotolo per il pendio opposto, ripidissimo; ma un attimo di lucidità mi blocca: a questo modo fra pochi istanti sarò alla Faentina, in braccio ai tedeschi. Punto i talloni per frenare la spinta e mi ruzzolo a destra, in una magra macchia di cespugli. Gli altri due mi seguono, sono Subitén e Ferruccio.
Quelli del gruppo più a monte hanno fatto come noi, anche loro hanno cercato la salvezza oltre il crinale; ma Nikolaj, Michel, Carabiniere e Delmo sono andati troppo avanti e li hanno catturati. (I cadaveri dei due italiani furono poi trovati alla Certosa di Bologna; dei due russi non si seppe più nulla, certo furono uccisi sul posto).
Amedeo, che era un po’ più sotto di noi, è rimasto circondato e non ha potuto raggiungere il crinale. Dalla macchia dove siamo nascosti sentiamo i colpi del suo moschetto, spara per non farsi prendere: è l’ultimo fuoco della nostra compagnia nella battaglia di Purocielo.
Spingli è stato il primo della nostra compagnia a raggiungere Poggio Termine. Si siede, esausto, nella stalla e comincia a raccontare. Una palla sperduta infila un finestrino largo un palmo e va a spaccargli la testa.
Schiacciati a terra, ansanti, cercando di restare immobili in mezzo a quei cespugli, io, Subitén e Ferruccio non possiamo fare altro che aspettare e sperare: aspettare che venga buio, sperare che col buio i tedeschi se ne vadano e che noi possiamo uscire per ricongiungerci agli altri. Ma non è neppure l’una e le probabilità di salvezza sono minime.
Sappiamo che i tedeschi hanno dei cani speciali per scovare la gente nascosta; sappiamo che in queste situazioni usano anche i lanciafiamme e il pensiero di bruciare vivi ci fa rabbrividire, quasi non badiamo alle raffiche che ogni tanto spazzano la sterpaglia, qua attorno.
Un grosso tedesco cammina avanti e indietro sul crinale, tre metri sopra di noi. Ha l’elmetto calcato in testa che gli scende sugli occhi, la Maschine stretta sotto l’ascella. Dà ogni tanto uno sguardo sotto ma di sfuggita, come di malavoglia, senza convinzione. Forse il servizio che gli hanno comandato non gli piace per niente, dopotutto uno di quei cespugli lì sotto può mettersi a sparare e lui, così stagliato nel cielo, è un ottimo bersaglio.
Ma per noi, nascosti sotto il crinale, l’andirivieni di quel nemico è ossessionante: uno perde la testa e lo punta con la pistola, a braccio teso: tanto, finita per finita… Gli altri gli sono addosso, gli abbassano la mano: non è ancor detta l’ultima… Le tre del pomeriggio. Abbiamo fame, stamattina nessuno ha mangiato. Trovo in tasca un pezzo di pane, lo dividiamo.
Mastichiamo adagio, in silenzio, inghiottire è fatica. Le cinque del pomeriggio. Ormai attorno a noi c’è una gran quiete, non si sentono più né voci né spari. Improvviso un aereo picchia ululando sulla Faentina: il fragore di due esplosioni e la valle si riempie di un fumo giallo e nero.
Lentamente il sole se ne va. Al primo imbrunire lasciamo, cauti, il nostro rifugio e guadagnamo il crinale. Osserviamo attentamente in basso, nella vaile del Co’: nessuno, né tedeschi né partigiani, sembra un posto abbandonato, privo di vita. È buio quando cominciamo a scendere, poggiando sulla destra. Arriviamo al gruppo di case che formano il villaggio di Purocielo, bussiamo a una porta; cerchiamo da mangiare e da dormire. «Andatevene, per carità, i tedeschi sono stati qui tutt’oggi, domani torneranno, non sapete… Andate via, la brigata non c’è più, tutti morti e dispersi, Bob l’hanno ammazzato… Andate via, salvatevi…»
Alla seconda casa, identica risposta. Alla terza, quasi sul torrente, una famiglia più coraggiosa ci apre; ci danno da mangiare, pane e formaggio. Ma le informazioni sono uguali: la brigata è finita, Bob è morto, chi ha potuto si è salvato passando il fronte, gli altri si sono sbandati in pianura.
Che fare? Se ci prendono armati, ci fucilano. Se ci catturano senz’armi, con questi luridi stracci pieni di pidocchi, con questi capelli, queste barbe, è quasi certo che ci ammazzano ugualmente. Ma quel “quasi” ha un valore molto alto in questo momento, è l’unica, sottile frontiera che divide la vita dalla morte…
Decidiamo di abbandonare le armi. Le sotterriamo vicino alla casa; una accanto all’altra io e Subitén mettiamo nella stessa buca la Smith & Wesson e la Frommer: il più bel revolver e la più bella pistola della compagnia, destinati alla ruggine…
Andiamo a dormire nel fienile, tristi, avviliti, esausti. (La brigata non è affatto finita e Bob è più vivo che mai: a Poggio Termine, nella notte, ordina ai superstiti della nostra compagnia – una decina – di scavare delle trincee mascherate ai lati della casa; e ve li fa appostare).

OTTOBRE, 12
Prima dell’alba ci vengono a svegliare e un ragazzotto ci guida oltre il Co’, in un bosco rado ma grande di quercioli. Ci sediamo e aspettiamo che passi un altro giorno. (Verso le dieci i tedeschi attaccano Poggio Termine, dopo aver bombardato a lungo con i mortai; ma non è zucchero).
Ci sono più di centoventi partigiani, con molti mitra e tre mitragliatrici.
Quelli di Tito, nascosti nelle postazioni mimetizzate, hanno l’ordine di lasciarli venire avanti senza sparare e di prenderli poi alle spalle. Oltre a Tito e a Raf ci sono Ligure, Pompierino, Athos, Diego, Agadir, Mauro, Giorgio, Pino, Tonino, Medardo).
Nel bosco sentiamo i rumori del combattimento, si distingue bene la voce di una Bren. Comprendiamo che la brigata è ancora in piedi, che abbiamo creduto troppo alla svelta alle voci di disfatta; e ci vergognamo un poco di esserci disarmati. Ma un’arma la troveremo, se riusciremo a riunirci ai nostri; e staremo attenti a non farci più tagliar fuori, a costo di legarci agli altri con delle corde…
(A Poggio Termine i tedeschi, a prezzo di molte perdite, si sono fatti sotto, nel prato antistante la casa; hanno già oltrepassato i partigiani della nostra compagnia che, dentro alle postazioni, attendono il segnale di Tito e di Raf per attaccare i nazisti alle spalle.
Ma all’improvviso Bob afferra la Bren postata sulla soglia della cucina, esce di corsa sul prato e vuota tutto il caricatore, in piedi, con una sola raffica interminabile, manovrando la mitragliatrice come se fosse un tubo per innaffiare. Il prato si semina di cadaveri, i superstiti fuggono urlando.
Riprovano ancora, un po’ più tardi; e questa volta è Giulio, il mitragliere di Amato, che risolve la situazione: carica la Breda sulla schiena del suo vice e mentre questi avanza carponi, trasformato in un treppiede vivente, spara sugli attaccanti finché non riesce a respingerli.
La battaglia di Poggio Termine è finita.
Ora è l’artiglieria inglese che picchia sui partigiani delle altre compagnie, attorno al Torrione; e si hanno segni di sbandamento. Ci corre Bob in persona, sotto le bombe, e riesce a riprendere in mano la situazione.)
Una ragazzina ci viene a portare un po’ di pane e delle noci. All’imbrunire ci incamminiamo verso il Torrione di Calamello. (A buio Bob ordina i preparativi per spostare di nuovo le compagnie e i feriti a Cavina. Ma prima raduna i comandanti e i vice: vuol sentire da loro se credono possibile un altro tentativo di sfondare il fronte. Sono tutti contrari, diverse compagnie hanno vacillato, il morale è piuttosto basso. Solo Raf sostiene la tesi di Bob, che è respinta a gran maggioranza.)
Sotto il Torrione, al chiarore della luna, centinaia di uomini passano in una lunga fila ininterrotta. Guardiamo da lontano, cercando di capire se sono tedeschi o partigiani. Sui dorsi dei muli distinguiamo le sagome delle nostre mitragliatrici e allunghiamo il passo per accodarci. Scendiamo il versante del Sintria, alla prima casa ci fermiamo e ci buttiamo sul pavimento. Sono sfinito, ho la febbre, non so se per la tensione nervosa o per una mano scorticata che mi comincia a fare infezione.
Domani i tedeschi verranno qui. Ora possono liberamente disporre dei due crinali che controllano la valle. Verranno e pesteranno qui dentro con le mitragliere e i mortai; i partigiani, dopo tre giorni di combattimento, avranno sì e no dieci minuti di fuoco.
Sì, domani i tedeschi verranno, se non sono dei perfetti cretini; verranno e sarà finita per tutti. Ma almeno saremo tutti insieme.
In compagnia di questi allegri pensieri mi addormento profondamente.

OTTOBRE, 13
Mi sveglio alle nove. Esco dalla casa. Anche oggi è una bella giornata. C’è una calma, un silenzio che stento a credere veri. Solo qualche mitragliera, lontano, spara raffiche brevi, svogliate.
Evidentemente i tedeschi sono proprio stupidi, per oggi è certo che non attaccano più. Forse i tre giorni di battaglia gli sono costati troppi morti, forse dovranno rifare un nuovo piano e mandarlo all’approvazione di qualche comandante grosso…
Be’, sia come sia, pigliamola come viene; sono sempre ventiquattr’ore regalate.
Trovo presto i miei, che mi fanno festa: uno di meno da contare fra i morti.
Ne abbiamo perduti dodici, ier l’altro mattina; e qualcuno non ha perso solo un compagno.
Medardo piange suo fratello Delmo, Agadir l’amico Mario, che era quasi un fratello. Tre coppie di amici inseparabili sono state ingoiate dal combattimento: Spingli e Galuppo, Rico e Tonio, i due russi. E poi Carabiniere, Carlino, Tom, il Moro… Molti i dispersi, tutti rientrati.
Manca solo Bàlota, ma nessuno l’ha visto cadere e con quello spirito che ha siamo certi che tornerà da un momento all’altro.
Nessuno fa gran caso al fatto che ci siamo disarmati, solo qualche sfottitura.
Giorgio mi dà una pistola da carabiniere completa di cinturone e fondina, con dieci colpi.