Nino Bordini, Gnaf

«Nino era buono. Da bambino andava da Attilio il falegname, un vecchio socialista, dove si parlava di politica. Ma in tutta la zona della Filanda si parlava di politica. Mio padre era un Popolare, del partito di Don Luigi Sturzo. Mia mamma ha provato cosa voleva dire fare politica: lavorava nella filanda di Budellacci e a 8 anni faceva sciopero per le filandaie e le bustaie».

Testimonianza di Rosa Bordini, sorella di Nino

«La filanda era un ambiente antifascista. Bordini era un ragazzo come me, amava andare a pesca. Nella Filanda c’era un laghetto derivato dalla vasca della fornace e in questa buca si andava a pescare. Si prendevano pesci gatto, ranocchi e tutto quello che c’era».

Testimonianza di Gino Tanesini

«A Nino piaceva scherzare. Era un ragazzo di compagnia. Si usciva insieme e spesso dividevamo anche quei pochi soldi che magari uno aveva e l’altro in quel giorno non aveva niente.»

Testimonianza di Aldo Domeniconi, il partigiano Patò

L’8 settembre 1943 era a Faenza, in convalescenza dopo aver avuto la peritonite.
Nino diventa un gappista e opera a Faenza nelle azioni di sabotaggio e attacchi all’esercito tedesco.
La sua famiglia fu sfollata nella fornace di Granarolo, qui Nino si recò tre volte a visitarli.

Ai primi di luglio 1944 si riunì insieme agli altri partigiani che poi costituirono il Battaglione Ravenna e andarono a combattere in collina.

Andammo sulle colline faentine pronti ad occupare Faenza. Sembrava da un giorno all’altro che gli inglesi arrivassero ma quando capimmo che ciò non avveniva ci fu una grossa delusione. Ritornammo sui nostri passi e la mattina del 24 settembre quasi a sorpresa sentimmo colpi di Spandau. Eravamo nella strada della Valletta che collega Fognano a Zattaglia. Ci mettemmo in posizione difensiva.
Io, Gnaf e il porta munizioni Tigre ci piazzammo al culmine della piccola altura, stando molto attenti. Sentiamo urla poi fucilate, insomma un attimo dopo ci fu battaglia con noi.
Lì rimasero feriti Gnaf e Tigre, con un unico proiettile che passò da parte a parte nella coscia di Tigre, mi passò in mezzo alle gambe e si conficcò nel tallone di Gnaf.
Furono subito soccorsi e portati in infermeria del battaglione che si trovava vicino alla chiesa di Cavina.
Avuto notizie che i nostri feriti stavano abbastanza bene, immaginate la contentezza.

Testimonianza di Aldo Domeniconi, il partigiano Patò

Ma la tragedia doveva ancora compiersi. A Brisighella, la notte tra il 16 ed il 17 ottobre giunsero da Faenza i militi della brigata nera. Avevano i camion, sui quali caricarono tutti i partigiani, feriti e illesi, e ripartirono per Faenza. A Villa San Prospero, sede del comando fascista, i prigionieri vennero bastonati, torturati, ridotti in fin di vita. Il loro tormento ebbe fine il 18 ottobre quando Gnaf, Tigre, Attilio, Mao, Napoli, Bill, Gianni, Leo, Carlino, Delmo, Terzi, Renato, Sergio e Fonso furono condotti a Bologna e fucilati al Poligono di Tiro.

Ferruccio Montevecchi, La Battaglia di Purocielo

IL PARTIGIANO GNAF

Sin dal principio, dalla magnifica domenica piena di sole che ci riunimmo sul Monte del Tesoro, il partigiano «Gnaf» si rese amico a tutti. La sua faccia paffuta, i suoi occhi azzurro chiaro ed i suoi folti baffoni, gli davano un’aria sorniona e tranquilla che attirava irresistibilmente la simpatia.
Era sempre di buon umore e riusciva invariabilmente a comunicarlo a chi gli era vicino. In tutte le cose coglieva e metteva in risalto il lato comico; raccontava barzellette e faceva scherzi innocui e ben congegnati. Insomma in sua compagnia il malumore passava e si prendeva gusto alla vita. In seguito, dopo che ci fummo tutti conosciuti bene, lo classificammo nel folto gruppo degli «il lavabili» così chiamati perché adducendo a scusa che a lavarsi portava disgrazia, non si lavavano mai. In compenso però «Gnaf» portava al collo una sciarpa di lana bianca che mai si toglieva anche se il caldo era a trenta gradi e vi si pavoneggiava asserendo che l’unica persona elegante ed aristocratica della compagnia era lui e si dava da fare colle ragazze sfollate, numerose nelle case dei contadini e a tutte faceva l’occhiolino.
«Gnaf» non era solo un buon compagno, era anche un coraggioso. Quando i nostri comandanti e dirigenti vennero uccisi in un’imboscata, fu uno dei primi ad accorrere in loro soccorso ma purtroppo era tardi e non fu niente da fare.
Quando giungemmo in brigata, si offrì subito per una missione pericolosa e quando dopo alcuni giorni fece ritorno, portava un braccio fasciato. Gli corremmo incontro ed apprendemmo che aveva avuto uno scontro con fascisti a Mercatale e che si era buscato una raffica di mitra nel braccio sinistro. Il segno lasciato da cinque proiettili era talmente perfetto e simmetrico che neppure un architetto sarebbe riuscito a tanto. In seguito il commissario «Arno» lo consigliò di recarsi all’infermeria per farsi medicare ma «Gnaf» ci rise sopra. Si sputò sulle ferite, le massaggiò colla mano sana e si fasciò col fazzoletto da naso del quale non si conosceva il colore dal tanto che era sporco ed insanguinato.
Dopo alcuni giorni era di già guarito e mostrava in giro i cinque segni bianchicci lasciati dalle ferite rimarginate che gli rigavano il braccio raccontando che la morte aveva tentato di ghermirlo ma che lui si era divincolato riuscendo a liberarsene non senza però che questa gli lasciasse i segni delle sue unghiate.
Nella battaglia di Castagno, dopo che ci fu colpita la postazione centrale e ci rimasero uccisi gli inservienti alle armi, «Gnaf» col suo mitragliatore sostenne per oltre due ore l’urto frontale delle «S.S.» nemiche. Gli ero vicino e lo vedevo sparare con impegno rabbioso. Digrignava i denti e ad ogni nemico che abbatteva, lanciava un urlo e mi agitava la mano gridandogli di tenergli il conto.
Poi fu uno dei primi a buttarsi all’assalto. Si era passata la cinghia dell’arma sulla spalla e da sotto il braccio sparava correndo sui tedeschi in fuga. Raggiunto che avemmo il fiume Senio, dalla strada oltre un «S.S.» partì in motocicletta a tutto gas in cerca di aiuto e «Gnaf» gli sparò contro un intero caricatore. Vedemmo le pallottole schizzare sul muretto del ponte di Castagno tutto intorno al tedesco ma questi passò indenne e scomparve oltre la curva della strada verso Palazzuolo. «Gnaf» allora si alzò in piedi e imprecando sferrò un calcio all’arma inefficiente poi fingendo dolore si mise a saltellare gridando e tenendosi il piede in modo che anche in quei momenti di tensione gli riuscì di farci ridere.
Finita la battaglia partimmo verso ovest, verso le alte montagne ma appena due giorni dopo facemmo dietro-front puntando ad est, direttamente verso la pianura.
«Gnaf», come del resto tutti noi, era esultante: «appena entreremo in città», disse, «farò piazza pulita dei fascisti e voglio essere il primo a mettere piede in centro colla mia «Carolina»! Così soleva chiamare la sua fedele mitragliatrice e se la stringeva al petto baciandone la fredda canna come fosse realmente la sua ragazza. Ma il destino crudele gli impedì di raggiungere il suo paese.
Il ventiquattro settembre, mentre l’alba stava tingendo di rosa un limpido cielo domenicale, un improvviso scoppio di fucileria echeggiò poco distante. Balzammo dalla stalla delle Torri di S.Stefano ove dormivamo e corremmo sulla piccola altura che si innalzava a nord-est dalla casa disponendoci in posizione difensiva. «Gnaf» ed il porta munizioni «Tigre» si piazzarono al culmine dell’altura poi tacemmo tutti e facemmo grande attenzione a ciò che stava succedendo dato che nessuno di noi ancora aveva capito nulla sulla faccenda.
Davanti a noi la collina calava rapidamente ed era ricoperta da fitta boscaglia. Oltre la cima degli alberi, a meno di cento metri, si intravedeva il biancore della strada e lì vi era un grande movimento. Gente correva, ordini, urla, poi di nuovo una scarica di mitraglia dal fondo della via. Un proiettile, probabilmente l’ultimo sparato, superò rabbioso il bosco e sibilò, raso terra, verso la cima dell’altura in cerca di un bersaglio ed accidentalmente lo trovò. Trapassò entrambe le gambe a «Tigre» poco sopra ai ginocchi e finì la sua corsa sfracellando il tallone destro di «Gnaf».
In quella giunse trafelata una staffetta avvertendoci che la compagnia del «Biondo» aveva circondato e catturato una colonna di soldati tedeschi dopo una breve resistenza da parte di questi.
Tutto questo era stato fatto, cosa deprecabile, senza che la compagnia del «Biondo» di stanza ad appena duecento metri dalla nostra base, si desse la pena di avvertirci. Così il «Biondo» se la cavò di netto e con un buon bottino di armi e cavalli mentre noi ci lasciavamo due feriti che in seguito divennero due morti.
Intanto alcuni stavano trasportando «Tigre» che zampillava sangue come una fontana e le armi verso le torri mentre «Gnaf» apparentemente illeso, saltellava tutto attorno su un piede imprecando. Gli vidi il sangue uscirgli dalla scarpa e gli corsi vicino. La pallottola gli aveva centrato l’osso del tallone spappolandoglielo.
Mi passai il mitra sul petto ed abbassandomi gli dissi di abbrancarmi il collo e così me lo caricai sulla schiena tenendogli alte le gambe colle mani. Il sangue della sua ferita ora usciva copioso e mi zampillava addosso, mi scendeva caldo lungo le gambe e ben presto ne fui tutto impastricciato. Il dolore di «Gnaf» doveva essere terribile ma non lo udìì fare un lamento, imprecava solo contro il destino ed alla sfortuna.
Quando giungemmo sull’aia delle Torri, parte delle ragazze sfollate che erano intente a medicare «Tigre» ci corsero incontro sollecite ed io deposi «Gnaf» a terra sostenendolo a braccetto. Allora avvenne una cosa piuttosto comica. Le ragazze vedendomi tutto insanguinato e probabilmente il più abbattuto dei due, mi presero delicatamente a braccetto e fecero per condurmi verso casa al chè io gridai; ma è lui il ferito!! Mi guardarono costernate, come deluse poi mi spinsero a parte con poco garbo, quasi con rabbia e si indaffararono intorno a «Gnaf». Lo adagiarono a terra con estrema delicatezza e corsero con acqua, sapone e medicamenti. «Gnaf» le guardava lavorare con interesse, come se il piede fosse di un altro, indi si scelse la più carina del gruppo e la incaricò della mansione.
La ragazza che allora mi sembrò bellissima, con tatto gli sollevò il pantalone, gli levò la scarpa sbrindellata e gli nettò il piede da mesi non lavato e stringendo i denti lo disinfettò abbondantemente con tintura di iodio.
Tanto era aggraziato il di lei modo di fare e tanto carezzevoli erano le sue bianche manine che sul momento provai invidia ed avrei voluto essere io il ferito.
Finita l’operazione, «Gnaf» se la chiamò vicino e volle darle un bacetto e le fece complimenti senza denotare il minimo segno di sofferenza. La sua forza di sopportazione al dolore era formidabile, quasi incredibile.
In seguito i feriti vennero caricati su di un biroccio ed inviati verso l’infermeria di brigata che in quel momento si trovava piuttosto distante.
Per diverso tempo dei feriti non seppi nulla. Allora avevo molto da fare che si combatteva di continuo. Poi il giorno dopo che ebbe termine la battaglia di Purocielo, verso l’imbrunire, aiutai l’infermiera «Laura» a trasportare una batteria elettrica dentro la chiesa di Cavina trasformata in ospedale. Mentre stavo assistendo ad un delicato intervento su di un ferito grave da parte di alcuni dottori, mi sentii chiamare. Mi volsi e vidi «Gnaf» avvicinarsi zoppicando. Gli corsi incontro e ci abbracciammo. Mi disse subito che incominciava ad andare bene, che presto sarebbe ritornato fra di noi a combattere e che non voleva mancare all’appuntamento sulla piazza di Faenza.
Tenendolo a braccetto uscimmo sul sagrato e parlammo a lungo. Volle sapere tutto della battaglia appena finita e sacramentò a lungo all’indirizzo dei compagni che avevano tagliato la corda poi andammo a visitare «Tigre» che data la grande perdita di sangue era ancora debole.
Quando ci lasciammo gli promisi di ritornare il mattino dopo e di portargli qualcosa da fumare; «allora non sapevo del succedere degli avvenimenti chè altrimenti me lo sarei potuto trascinare dietro dato che incominciava anche a sostenersi da solo e difatti ritornò in chiesa senza accettare il mio aiuto».
Così a notte la pressione nemica si accentuò ed improvviso giunse l’ordine di partenza. Il cerchio tedesco stava di nuovo per stringersi attorno a noi e sotto un furioso fuoco di artiglieria ci buttammo verso una meta ignota ma io ero convinto che i feriti meno gravi ci stessero seguendo non sapendo della gravità del momento.
Solo a guerra finita seppi della cattura e della triste fine di «Gnaf», di «Tigre» e di tanti altri che non poterono essere portati in salvo. A lungo maledii quella notte ripensando che avrei potuto portare «Gnaf» in salvo con me che gli ero affezionato da ritenerlo come un fratello.
(A fatti avvenuti, dopo che tutto è passato, molte critiche ci sono pervenute circa l’abbandono dei nostri feriti ma è facile giudicare dopo e dire che si poteva fare così e così ma sul momento, quando ogni via di salvezza sembra preclusa e la morte ormai inevitabile per tutti, la cosa è molto differente e difficile da sbrogliare e se vi fu un errore da parte nostra credo sia stato quello di non uccidere noi stessi i nostri feriti come del resto esigeva la legge di quei terribili tempi risparmiando così a loro tante sofferenze).

da ETTORE CALDERONI (COW BOY), OTTO SETTEMBRE PRIMA E DOPO,
1979, Imola, pp. 196-202.

 

i russi

La presenza di partigiani sovietici in Italia è una pagina forse meno nota, ma molto importante.
Con l’«Operazione Barbarossa» della Germania Nazista vennero fatti prigionieri, senza una precedente dichiarazione di guerra, cinque milioni di soldati dell’Armata Rossa. Tra le loro destinazioni, per lo più per svolgere lavori lavori ausiliari e manuali per l’edificazione di rifugi e infrastrutture varie non mancava l’Italia. Parte di questi prigionieri, dai cinque ai settemila, disertarono e abbracciarono la causa partigiana, vedendo la possibilità di combattere contro il nemico comune e contribuire alla sua sconfitta. Erano combattenti tecnicamente superiori in quanto avevano sulle spalle l’addestramento nell’Armata Rossa e nella Wehrmacht, e fuggivano dai nazisti con le armi, supportando i nostri giovani partigiani italiani più inesperti. Presero parte con coraggio alle operazioni più importanti.
Nelle brigate partigiane dell’Emilia- Romagna la presenza sovietica è una delle più numerose, con più di novecento combattenti e più di ottanta caduti in combattimento.
Sul ruolo importante svolto dai partigiani russi c’è una bella testimonianza di Mario Cavina, il partigiano Tigre di Casola Valsenio: «il rifiuto e il superamento di abitudini derivate dal fascismo e dalle precedenti esperienze di vita militare erano favoriti dal vivere con persone che non avevano conosciuto il primo e avevano ben altre tradizioni militari. Ricordo che con noi erano tre russi i quali se prendevano il rancio per primi si limitavano scrupolosamente a prendere la loro parte, mentre c’era anche chi provava a prenderne di più a scapito degli altri e i russi gli chiedevano: “perché?”».
Sull’arrivo dei sovietici tra i partigiani una documentazione è nel libro sulla Resistenza nei monti di Casola: «il giorno 13 settembre una squadra partigiana intercetta nei pressi Monte Romano una pattuglia di quattro tedeschi che scorta un prigioniero russo: i tedeschi rimangono uccisi mentre il russo entra a far parte della 36ª dove già combattono alcune decine di suoi connazionali».
Due russi facevano parte del gruppo di Amato e il 10 ottobre erano tra i volontari pronti all’attacco da Ca’ Malanca per tentare di sfondare il fronte e raggiungere gli inglesi. Giorgio fu colpito in quella mattina con un colpo di mortaio da 81 tedesco giunto nella postazione dove il mitragliere sovietico con la sua Breda era un punto di riferimento, tanto che la sua morte provocò grosso smarrimento tra i compagni che lo aiutavano a manovrare l’arma.
Nella stessa fase della battaglia un altro russo chiamò Amato per chiedergli di dargli il binoco per andare a fare un’ispezione. Amato non lo vide più e, «dopo sette, otto anni trovarono uno scheletro dietro al mio binocolo e sulla base di questo si stabilì che era lui Sergio», Panof di Tula.
Altri due russi, Michel e Nikolai, si trovarono il giorno successivo sull’altura di Monte Colombo e insieme ad altri quattro partigiani scesero nel dirupo verso la Faentina. Superata Ca’ Riva si scontrarono con i tedeschi e dopo un breve scambio di colpi tornarono alla casa inseguiti. Due sfuggirono alla cattura, rifugiandosi fino a notte sotto un anfratto del rio S.Eufemia, due furono catturati e fucilati a Bologna e dei due russi non si è saputo più nulla. Probabilmente, riconosciuti per tali, furono uccisi sul posto.

Wilhelm

Tenente medico austriaco.
Il 10 ottobre 1944 era con il gruppo di medici ed infermieri a Ca’ di Malanca che lavorava con grandi impegno a soccorrere i feriti. Spostatosi nella notte a Poggio Termine insieme a tutto il gruppo intevenne anche nel giorno successivo a soccorrere i feriti, tra cui l’estrazione di una pallottola ad Angelo Labò.
Stabilita successivamente l’infermeria a Cavina, il 14 ottobre i tedeschi, all’alba, entrarono nella canonica. L’infermiera Angiola e Wilhelm tentarono di persuadere l’ufficiale a desistere, ma scacciata la donna Wilhelm venne percosso. I feriti vennero caricati su un carro-buoi, gli altri prigionieri sotto scorta armata seguirono a piedi fino a Brisighella dove vennero messi come prigionieri nell’ospedale. Successivamente furono portati a Faenza prima e poi a Bologna dove vennero fucilati.
Wilhelm durante il cammino verso Brisighella tentò la fuga ma venne crivellato di proiettili nei pressi del cimitero di S.Stefano in Zerfugnano.