Mario Cavina, partigiano di Casola Valsenio

Nato e vissuto a Casola Valsenio. Ha pubblicato la testimonianza della sua esperienza di partigiano in Amilcare Mattioli, Giuseppe Sangiorgi, La resistenza sui monti di Casola, 1994, pp. 166-170. Basato sulla sua biografia è stato anche pubblicato: Cristiano Cavina, Fratelli nella notte, Feltrinelli editore, 2017, pp. 80.

[Testimonianza pubblicata nel 1994] L’armistizio dell’8 settembre 1943 mi colse sotto le armi e come tanti abbandonai armi e reparto e feci ritorno a casa, a Ca’ Batoli, vicino al Paese (Casola Valsenio, n.d.r.). Ripresi il lavoro dei campi e mi disinteressai dei grandi mutamenti politici di quei giorni e di quelli che seguirono. Quando la mia classe fu richiamata chiesi consiglio ai miei vecchi sulla strada da prendere, ma essi risposero che la scelta spettava a me, che il pericolo c’era sia a partire come a restare. Restai, anche a causa della precedente esperienza militare che mi aveva lasciato una profonda avversione per la guerra e per l’esercito. Per tutto l’inverno restai tranquillo a casa, essendo assegnato al servizio sedentario. Ricevetti alcuni inviti ad aderire alla GNR, ma rifiutai sia perché erano stati i fascisti a voler la guerra e a volerla continuare ora, ma anche perché ero cresciuto in una famiglia di sentimenti antifascisti.
A primavera la mia posizione divenne insostenibile: o arruolarmi o darmi alla macchia. All’osteria dissi che sarei partito per arruolarmi e quindi mi nascosi in casa da cui uscivo solo la notte. Dopo un breve periodo di vita clandestina venni avvertito da un repubblichino (che era in contatto con i partigiani) che ero stato scoperto e che i capi della GNR locale potevano catturarmi da un momento all’altro. La notte, con i soli vestiti che indossavo, mi trasferii alle Banzole di Baffadi dove mi accolsero di buon grado benché conoscessero la mia posizione di disertore.
Per sdebitarmi della ospitalità lavoravo nei campi e fu proprio mentre ero intento a mietere che venni avvicinato da due partigiani. Saputo che ero renitente mi prospettarono i pericoli che correvo restando in quella casa e la minaccia di rappresaglia verso la famiglia che mi ospitava. Quando mi salutarono mi avvertirono che se sceglievo la vita partigiana avrei potuto aggregarmi ad un gruppo di giovani casolani che a distanza di pochi giorni sarebbe salito in montagna.
Ci pensai e decisi di partire: a Valdifusa mi aggregai ai casolani e, guidati da un paio di partigiani, raggiungemmo Sfirolo dove ci fecero sostare in attesa di qualcuno. Poco prima di mezzanotte giunse un gruppetto di persone, tra cui Angelo Morini di Riolo Bagni che ci tenne un breve discorso. Ci incitò a lottare contro i tedeschi e i fascisti; ci esortò a lottare per un futuro migliore senza la oppressione fascista; ci chiarì insomma i motivi politici ed ideali della nostra scelta che dentro di noi erano ancora amalgamati con motivi prativi ed utilitaristici.
Riprendemmo poi il cammino per il Monte Carzolano dove si trovava la zona presidiata dalla 36ª Brigata «Garibaldi». Durante il lungo e faticoso trasferimento ebbi modo di ripensare con calma alle parole di Morini e il trovare dei validi motivi per una scelta tanto difficile e sofferta, poter vedere lo sbocco di una vita migliore al termine della dura lotta che ci aspettava in montagna mi rinfrancò e fece svanire la maggior parte delle apprensioni che mi avevano tormentato negli ultimi tempi.
Il comando partigiano della 36ª mi assegnò alla compagnia di Amato dove, dopo avermi scherzosamente affibbiato il nome di Tarzan per la mia bassa statura, venni incaricato di accudire ai cavalli. Mi impegnai nel nuovo compito al limite delle mie possibilità così da evitare le missioni di guerra: l’esperienza militare mi aveva insegnato di non essere fatto per i combattimenti. Amato, che, come tutti i comandanti partigiani, conosceva e capiva i suoi uomini, si accorse della mia paura e mi tranquillizzò assicurandomi che si combatteva anche accudendo i cavalli e che l’aver scelto la lotta partigiana era già un grande atto di coraggio.
In fondo però invidiavo il coraggio e la capacità dei compagni che colpivano i nemici persino nelle città con azioni rapide ed incisive, ma era più forte di me il desiderio di restarmene alla base. Non si era però completamente sicuro neanche nella zona della 36ª tanto che un paio di volte sfuggii miracolosamente al tiro nemico mentre portavo i cavalli ad abbeverare con l’unica difesa di un vecchio fucile «91».
In montagna ebbi modo di fare preziose esperienze di vita sociale e politica. Durante le ore di riposo o mentre pulivamo le armi si accendevano discussioni politiche dato che vi erano partigiani di tutti i partiti, anche se i comunisti erano la maggioranza. Quando veniva però il momento di combattere lottavano fianco a fianco l’uno per l’altro e a volte morivano per il compagno col quali avevano tanto polemizzato. Il rifiuto e il superamento di abitudini derivate dal fascismo e dalle precedenti esperienze di vita militare erano favoriti dal vivere con persone che non avevano conosciuto il primo e avevano ben altre tradizioni militari. Ricordo che con noi erano tre russi i quali se prendevano il rancio per primi si limitavano scrupolosamente a prendere la loro parte, mentre c’era anche chi provava a prenderne di più a scapito degli altri e i russi gli chiedevano: «perché?».
Dopo una iniziale partecipazione alle «ore di politica» ottenni da Amato il permesso di non continuare perché troppo teoriche per me, anche se Amato mi disse che era dovere di ogni cittadino farsi una coscienza politica, ma poi mi spiegò che le «ore» servivano soprattutto per formare i futuri quadri politici e sindacali.
Il giorno più importante della mia esperienza di lotta partigiana fu il 10 ottobre quando partendo in 70 da Ca’ di Malanca muovemmo all’attacco dei tedeschi per congiungerci agli alleati. Amato aveva chiesto dei volontari per questa azione concertata insieme agli uomini di Pirì e io avevo alzato la mano. Il mio comandante si meravigliò e gli dovetti spiegare che la mia decisione dipendeva dalla disperazione: erano diversi giorni che eravamo sotto la pioggia ancora con vestiti dell’estate, pieni di pidocchi, con un mangiare scarso e discontinuo e soprattutto nessuno sapeva se era più pericoloso andare o restare.
Fu subito chiaro che non basta la volontà di combattere; ci vuole la pratica delle armi e l’esperienza soprattutto nei combattimenti ravvicinati che si accendevano nelle macchie e negli anfratti attorno a Ca’ di Malanca. Le urla di incitamento, i lamenti dei feriti, il rumore degli spari e il sibilo delle pallottole mi impedivano di muovermi: accovacciato dietro un masso, con il mio vecchio fucile tra le braccia, stavo in attesa di un qualcosa che potesse scuotermi.
Pochi metri più in là vidi Boci alzarsi contemporaneamente a tre tedeschi e falciarli con una unica lunga raffica. Pensai che al suo posto sarei stato sicuramente ucciso. Ma non potevo continuare ad aspettare che un tedesco potesse scoprirmi ed uccidermi in tutta tranquillità così che mi alzai di scatto per combattere anch’io. La prima cosa che vidi fu la canna di un fucile che un tedesco mi puntava contro: mi lasciai cadere sulle ginocchia e nello stesso attimo pensai che non avrei più visto i miei e sentii il sibilo caldo della pallottola sfiorarmi la testa. Mi lanciai a corpo morto lungo la scarpata inseguito a non più di un paio di metri dal tiro di una mitragliatrice tedesca fino a raggiungere una posizione riparata. Dopo circa due ore dall’inizio dei combattimenti, Bob diede l’ordine di ritirarci per far posto a forze fresche. In quella occasione ebbi modo di vedere e di ammirare il coraggio del comandante della Brigata che da una altura, senza scoprirsi, sparava sui tedeschi per proteggere il nostro arretramento: il rispetto e l’ammirazione che noi tutti avevamo per Bob erano ben meritati.
Quando fummo al sicuro mi sedetti contro un castagno per farmi una sigaretta. Stavo pensando a quante volte avevo rischiato la pelle quando avvertii una sferzata nel fianco; pensai: «Una scheggia – e di seguito – guarda come è facile morire» e quindi persi i sensi. Mi svegliai accanto al pagliaio di Ca’ di Malanca a causa del dolore che mi provocavano alcuni compagni nell’esaminarmi la ferita. Non essendoci medici si limitarono a fasciarmi strettamente e a trasportarmi a braccia in una casa vicina dove i contadini si dissero disposti ad ospitarmi insieme ad un partigiano di Riolo Bagni rimasto per assistermi. Verso sera passò un commissario partigiano che ci lasciò 3000 lire per i nostri bisogni: erano i primi soldi che vedevo da quando mi ero fatto partigiano.
Il mattino successivo stavo già meglio anche se ero molto debole per il sangue perduto. La scheggia che mi aveva colpito era penetrata solo superficialmente e non mi procurava grossi fastidi (tanto che oggi è ancora lì). Sorretto dal mio compagno, che nel corso della notte mi aveva fasciato di nuovo e mi aveva ceduto la sua maglia essendo la mia insanguinata e a brandelli, ci mettemmo in cammino per allontanarci dal terreno dei combattimenti: restare avrebbe significato una morte sicura.
Alla prima casa dove bussammo per chiedere alloggio ci aprì una donna che conoscevo, ma quando anche lei ci riconobbe come partigiani richiuse violentemente la porta. Il mio compagno ebbe un moto di rabbia ma io giustificai la donna con il terrore delle rappresaglie nazifasciste e poi non eravamo più nelle condizioni di dettare legge nelle campagne: la popolazione contadina era rimasta alla mercé delle truppe tedesche in ritirata che non risparmiavano niente e nessuno. Riprendemmo la strada verso Casola e a metà giornata incontrammo Genoveffa Morini, una staffetta partigiana, la quale rintracciò mio fratello e con lui raggiungemmo la Fabbrica dove il dott. Spada mi fece la prima vera medicazione. Lasciata la Fabbrica il partigiano di Riolo, dopo esserci divisi i soldi rimasti, mi lasciò affidandomi a mio fratello. Rimasi nascosto una decina di giorni nel fienile di Castagnardizzo, da dove mi prelevarono una mia cugina e un ex fascista di Casola che aiutava i feriti i quali mi sistemarono in un rifugio ricavato in una scarpata presso di Ca’ Batoli in attesa di rimettermi in forse.
Erano un paio di giorni che me ne stavo rintanato ricevendo solo la visita dei parenti che mi portavano da mangiare, quando udii distintamente delle voci tedesche; la cosa non mi preoccupò sia perché era abbastanza frequente sia perché l’entrata del mio rifugio era stata occultata con molta cura. Sfortunatamente le artigliere alleate scatenarono proprio in quel momento un furioso bombardamento e tre o quattro tedeschi, per ripararsi, penetrarono per caso dentro il rifugio. La loro sorpresa superò certo la mia, ma ero io nelle condizioni peggiori: ferito e senza armi alla mercé di tedeschi in ritirata. Tra le molte parole riuscii a capire: «Tu partigiano ferito». Con gesti e parole riuscii a far loro capire che ero stato costretto dai tedeschi a trasportare armi verso Monte Battaglia e qui ero rimasto ferito; ci pensarono un attimo poi salutandomi con «Tu buono camerata» se ne andarono.
Rimasto solo mi accorsi che mi ero pisciato addosso dalla paura. Rimessomi in forze mi spostai a Ca’ Batoli dove ero costretto a nascondermi per il continuo passaggio di truppe tedesche verso i Gessi. Una notte due tedeschi giovanissimi penetrarono nella stalla mentre dormivamo e dopo aver saputo la posizione delle truppe inglesi ci chiesero di seppellire le loro armi e si avviarono verso le linee alleate. Un altro giorno una pattuglia tedesca nascose armi ed equipaggiamento sotto la paglia della nostra stalla. Due giorni dopo vennero due tedeschi conducendo due civili e con la minaccia delle armi ci costrinsero a portare le armi abbandonate fino a Montebattagliola. Qui facemmo una sosta; i tedeschi telefonarono al loro comando e quindi ci ordinarono di proseguire verso le loro retrovie. Prima di riprendere il camino approfittai di un attimo di disattenzione dei nostri sorveglianti e del buio della notte per lasciarmi cadere lungo una scarpata e quindi me ne tornai a casa dove rimasi fino all’arrivo degli alleati.

Presentazione editoriale di: Cristiano Cavina, Fratelli nella notte, Feltrinelli editore, 2017, pp. 80.

Mario è un giovane contadino romagnolo, semplice e mite. Non ha sogni né desideri, e accetta con atavica rassegnazione la dura vita di lavoro e fatica che il destino gli ha assegnato. La sua esistenza procede così, nella ciclicità dell’alternarsi delle stagioni. Al compimento dei diciotto anni Mario riceve la cartolina di leva della Repubblica sociale: è il 1944 e per paura delle armi si sottrae all’arruolamento. Si rifugia prima da alcuni lontani parenti, aiutandoli nei lavori più pesanti in cambio dell’ospitalità. Ma la sua presenza è un pericolo per tutti, così si unisce alla 36a brigata Garibaldi. Lì, per la sua mitezza e la sua semplicità, viene esentato dalle azioni militari; si occupa dei muli e dei cavalli, con i quali solamente sembra a suo agio, e per questo legame con le bestie e per la comica rapidità delle sue fughe terrorizzate nei boschi all’arrivo dei tedeschi, gli viene dato come nome di battaglia Tarzan. Nonostante i suoi sforzi per nascondersi dalla storia, però, si ritrova in prima linea e per farcela è costretto a contare solamente su Giovanni, suo fratello. Ma Giovanni è più vecchio di quindici anni: i due sono quasi estranei, tanto che Mario lo ha sempre temuto e non sa prevedere come risponderà a una richiesta di aiuto tanto rischiosa. Con un respiro ampio che dà nell’epico, uno stile potente e asciutto, in grado di rappresentare gesti autentici e dialoghi di poche parole cariche di verità, Cristiano Cavina racconta una storia che si legge d’un fiato, commovente ed emozionante proprio perché priva di qualsiasi idealizzazione, di qualsiasi nostalgia. Soltanto due fratelli davanti al discrimine fra vivere e morire, senza mostri né eroi; soltanto un ragazzo spaventato che cerca di sopravvivere e un uomo costretto a scegliere se rischiare la vita per salvarlo.