Leonardo Visani, contadino mezzadro a Piano di Sopra

Nato a Palazzuolo sul Senio nel 1926. Nel 1944 mezzadro del podere di Piano di Sopra.
A Piano di Sopra durante la battaglia di Purocielo abitavano anche la zia Emilia Tronconi, vedova di Francesco Visani, con tre figli e molti sfollati da Faenza.
Il podere di Piano di Sopra era buono: produceva cento quintali di grano, frumento, patate. La stalla aveva dodici tra mucche e buoi. Esistevano vari filari, cioè la vite in coltura promiscua.

Estate 1944. A Valcolina di Monte Battaglia i partigiani aiutano i contadini a trebbiare il grano.
[Testimonianza rilasciata nel 1969] Nell’ottobre 1944, la nostra casa a Piano di Sopra venne occupata da una settantina di partigiani della 36ª Brigata Garibaldi, comandati da uno che si chiamava Tito.
Questi partigiani erano già nella nostra zona da un po’ di tempo e noi del posto non ci eravamo mai dati molto pensiero. In ottobre, invece, il fronte era molto vicino, coi tedeschi dappertutto e mia madre aveva paura che tutti quei partigiani in casa ci avrebbero procurato dei guai.
Ci risposero che quelli erano gli ordini del comando e non c’era niente da fare. Si sistemarono in casa, nell’aia e nel fienile.
Il comando di quei partigiani era a Ca’ di Gostino, che è una casa a due o trecento metri sotto la nostra, più vicina al fiume. Questi partigiani parlavano un dialetto che somigliava molto al nostro perché erano di Imola, Castel Bolognese, Casola, più qualcuno che era forestiero e dopo poco già ci intendevamo molto bene. Avevano con sé anche dei prigionieri tedeschi.
I partigiani, che avevano una gran fame, fecero fuori parecchi dei nostri polli, altri animali e anche una vitella, pagandoci regolarmente la nostra parte di mezzadri.
Per la metà del padrone dissero che ci pensavano loro. Assieme alla nostra famiglia ce n’erano altre due di nostri parenti sfollati; in tutto più di venti persone e quindi a Piano di Sopra si stava anche un po’ strettini. Io avevo allora 18 anni e pensavo che se venivano su i tedeschi mi prendevano per partigiano e questo mi preoccupava un po’.
II mattino del giorno 11, infatti, appena giorno, mia madre svegliò all’improvviso noi e i partigiani, gridando che venivano i tedeschi. Si sentiva urlare e sparare fuori della casa.
Dopo qualche minuto arrivarono nella cucina Bruno e Bob, che era il comandante di tutti i partigiani. Aveva una coperta sulle spalle e, con la voce affannata per la salita, gridava ai partigiani che si dovevano preparare.
Disse che i tedeschi avevano attaccato Ca’ di Gostino, che Attila era morto presso la Chiesa di Purocielo e che i tedeschi ci erano già addosso. Un po’ alla volta arrivarono anche gli altri del comando, bersagliati dalle mitraglie su per la salita, ed anche altri partigiani da una casa vicina, chiamata casa Marcone.
Da quel momento cominciò una sparatoria fortissima. I tedeschi venivano su dal fiume e Bob cercava d’insegnare i punti e le finestre più adatti per colpirli. Non posso dire quanto è durato il combattimento, perché quelli sono momenti brutti e non si può pensare molto. Io ero rimasto in cucina con una quantità di partigiani e coi prigionieri. Guardavo fuori dalla finestre e vedevo che i tedeschi sparavano al sicuro, dietro buoni ripari della terra, senza farsi vedere.
A cinque o sei metri dalla finestra, tra il pagliaio e il pozzo, c’era il commissario Tom con degli altri. Lo guardavo con attenzione perché sparava un po’ col mitra e un po’ col fucile e mi sembrava molto sicuro del fatto suo. All’improvviso l’ho visto irrigidirsi, mentre qualcosa si staccava dalla sua schiena: era stoffa insanguinata ed i proiettili l’avevano colpito sotto il collo. L’ha seppellito più tardi mia madre, quasi nello stesso punto in cui era caduto.
Intanto i tedeschi avevano aggirato quasi tutta la casa, le munizioni stavano per finire e non c’era più molto tempo da perdere. Io, due cugini, seguendo i partigiani, ci buttammo verso il crinale nella direzione che ci aveva detto Bob. II cuore mi scoppiava per lo sforzo, per la paura, ma non potevo fermarmi neppure per tirar fiato perché i tedeschi, dall’aia, ci facevano il tiro a segno. Quasi sul crinale un partigiano ci chiamò gridandoci di cambiare direzione, ma noi non eravamo partigiani e scavalcammo la cresta buttandoci a rompicollo verso la Faentina. Ci fermammo un po’ in un campo di granoturco, ma anche lì le pallottole ci cercavano come una grandine, tra le foglie secche. Ricominciammo a correre e, dopo un po’, andammo a finire proprio in braccio ai tedeschi.
A Faenza ho visto due medici della brigata in un ufficio: li colpivano con pugni e spinte, ma loro non dicevano niente e sembravano già rassegnati. Da allora non li ho più rivisti e non so che fine abbiano fatto. Io, fortunatamente, me la sono cavata. I tedeschi non hanno bruciato la mia casa e quelli della mia famiglia non hanno avuto noie.
Ormai sono passati molti anni, ma fra quei ragazzi del 1944 ne ricordo uno in particolare. Si chiamava Delmo: era un tipo in gamba, simpatico, che s’intendeva anche di campagna. Chissà che fine ha fatto! Mi piacerebbe proprio rivederlo!
Possibile che questi partigiani siano morti tutti?

Riportiamo la sua testimonianza pubblicata in Luciano Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, Volume V, pp. 236-237