Mario Guerra, Mao

In alto a destra Mario Guerra, Mao. Al centro il comandante Amato col suo commissario Neo. Nella bandiera, realizzata con il tessuto di un paracadute, il nome di Pietro LIverani partigiano di Filo caduto sul Carzolano.

Mario Guerra, «Mao», figlio di Giovanni e Natalia Luciani; nato l’11 settembre 1921 ad Argenta ( FE); ivi residente nel 1943.
Agli inizi del 1944 divenne renitente di leva non presentandosi in seguito al bando di reclutamento della RSI. In proposito il fratello Antonio ha testimoniato che il fratello veniva cercato praticamente ogni giorno dal maresciallo dei carabinieri, il quale bussava alla porta di casa e sulla soglia aveva con sua madre sempre il medesimo scambio verbale fatto di botta e risposta: «Dov’è suo figlio signora?» «Mio figlio è militare …» «… Non ci risulta …». A quel punto la madre imperterrita concludeva la conversazione: «A noi ha detto che andava nei soldati …».
A metà maggio Mario partì per l’Appennino da Argenta insieme ad Afro Rossi, Amato, anche lui renitente, e Vincenzo Natali, Cencio, congedato e riformato dalla forte spinta ideale antifascista. Insieme raggiunsero la base di Imola in bicicletta e, dopo qualche tempo, arrivarono in montagna con la guida. Furono inquadrati dapprima nella compagnia dell’imolese Carlo Nicoli, composta da 59 elementi, poi nella compagnia (la 14ª) comandata da Amato.
Amato ha ricordato Mao nella pubblicazione di Agide Vandini come persona molto seria. Aveva fatto prima il barbiere con Nello Bonora, poi il bracciante. «Era un uomo molto deciso nelle sue cose. Per esempio quando noi andavamo a fare un attacco di sorpresa, al ritorno preferiva accelerare il passo e tornare solo. Mao aveva una capacità di orientamento particolare. Quando la raggiungevamo alla base, lui era già là che dormiva. Sia pure, a modo suo, “originale” e taciturno, era di buon carattere e molto intelligente: leggeva molto. Anche per questo fu scelto dalla compagnia come vice commissario politico».
Antonio Guerra, fratello di Mario, nella stessa pubblicazione di Agide Vandini ha confermato quanto asserito da Amato con qualche interessante particolare che meglio definisce la figura di Mario delineandone la personalità: «Nel 1944 avevo cinque anni, non ho quindi un ricordo diretto di mio fratello, ma posso riferire quanto si ricordava di lui in famiglia. Aveva una gran passione per la pesca in valle dove amava trascorrere le sue ore di libertà. Fu proprio in quel grande specchio di acqua salata che Mario Acquisì un senso dell’orientamento tutto speciale. Ricordo bene la sua fiocina, lo strumento che lo aveva accompagnato mille volte fra le insidie della palude, che mia madre conservò affettuosamente per moltissimi anni».
Quando si formò la compagnia comandata da Amato anche Mao ne fece parte e insieme si spostarono in Val Cavaliera, località situata oltre il Poggio dell’Altello nei pressi del Passo della Sambuca tra Palazzuolo e la Colla di Casaglia. Mao divenne vicecommissario. Il suo compito è ben descritto nel testo di Agide Vandini dedicato ai partigiani partiti da Filo: «ogni compagnia aveva un commissario ed un vice commissario. Costoro erano anche chiamati la “mamma di compagnia”, poiché, se in azione il comando spettava al comandante, una volta finita l’azione a tornati alla base, il comandante di compagnia non c’era più, c’era il commissario, la “mamma di compagnia”, che provvedeva per ogni necessità ed aveva un comando sugli altri. Si può dire che, alla base partigiana, il comandante era uno come gli altri e che vi esercitasse maggiore autorità il commissario».
Lunedì 9 ottobre 1944 le squadre di Bob e di Pirì vennero incaricate di tentare lo sfonda-mento da Ca’ di Malanca per superare i tedeschi e raggiungere le truppe inglesi. Si spo-starono da Poggio Termine, dove avevano il compito di proteggere l’infermeria, e arrivaro-no dopo la mezzanotte con un trasferimento “abbastanza lungo” che durò quattro ore circa. All’alba del giorno successivo, come testimoniò Amato nella pubblicazione di Luciano Bergonzini edito nel 1980 «fu disposto che il primo urto, e la conseguente conquista dell’altura, dovesse essere fatta da due gruppi delle due compagnie, cioè venti partigiani al mio comando e altri venti al comando di Boci, il vice comandante della compagnia di Pirì. Non fu difficile scegliere gli uomini perché tutti volevano fare parte dell’impresa. Giorgio, il mio vice comandante, chiese a Bob il permesso di sostituirmi nell’azione; insistette e allora il comandante mi ordinò di prendere il comando delle forze di rincalzo Poi mi si avvicinò Mao, vicecommissario di compagnia, pregandomi di lasciarlo andare. «Trovati tu stesso chi ti cede il posto!» gli dissi. E allora vidi Mao discutere con Neo, il commissario, e poi fare pari e dispari. Fu così che anche Mao partì col gruppo di testa». Vinta la scommessa, «vinse la morte», commentò in proposito Amato nella pubblicazione di Agide Vandini del 2005, aggiungendo che «parlarne adesso sembra una cosa da sciocchi, ma quando si è coinvolti è un’altra cosa. Noi eravamo volontari, non eravamo stati obbligati a combattere, sicché ognuno dava sempre in ogni momento quello che poteva dare, in un modo o in un altro».
Alle 11 in punto i quaranta uomini, scaglionati a gruppi di tre, partirono. In testa Il vice co-mandante della compagnia di Piri, Böci,, seguito a breve distanza da Mao e Giorgio. Böci superò un pilastro votivo ed ebbe uno scontro con un tedesco, dove fu più veloce a sparare,e raggiunse l’obiettivo, ovvero la quota 778.
Tornò indietro e raggiunse nuovamente il pilastrino, dove erano giunti anche Mao e Gior-gio. Insieme si accorsero di avere già il nemico sopra di loro. Fecero cenno agli altri di fermarsi e si appostarono dietro il crinale fra i cespugli. I tedeschi, che cercavano la sor-presa, si mossero rapidamente per cercare di travolgere il grosso gruppo di partigiani più a valle, ma non si erano però accorti dei tre dietro il pilastrino. Spinti dal loro coraggio stra-ordinario i tre aprirono contemporaneamente il fuoco a bruciapelo e, riportando quanto scritto da Marcella e Nazario Galassi in “Resistenza e 36ª Garibaldi” pubblicato nel 1957, «chi sa che cosa vogliono dire tre armi automatiche, che sparano addosso simultanea-mente, alla distanza di pochi metri, ne immaginerà il risultato. Il loro uso frequente aveva donato una perizia ineguagliabile ai partigiani più coraggiosi. I tedeschi caddero a mucchi, né gli scampati potevano risalire la montagna, perché avrebbero costituito un bersaglio ancora più facile».
I tedeschi rimasti in quota nel frattempo si organizzarono spostando una mitragliatrice in modo da poter colpire le fila dei partigiani. Quella «Spandau dall’alto, li colse in pieno: colpito alla testa Giorgio cadde a terra con lo Sten ancora in pugno. Morì subito, senza un grido e Mao, che gli era vicino, cadde anche lui, per la stessa raffica, ferito all’addome».
Seguì un tentativo di contrattacco tedesco, fermato da Boci, ma ormai era evidente che l’attacco a sorpresa dei partigiani era fallito e, su ordine di Bob, ci fu il ripiegamento generale a Ca’ di Malanca. In una breve pausa precedente Nerio e Algido, che avevano raggiunto il pilastrino nei pressi di quota 778, portarono in salvo Mao caricandolo su di na scale e trasportandolo dentro Ca’ di Malanca.
Tornata la calma nel pomeriggio, forse anche per l’effetto dell’artiglieria inglese, che colpiva anche la zona occupata dai tedeschi tra il Vigo e il Piansereno, i feriti vennero portati «a Poggio Termine di Sopra, un podere condotto a mezzadria dalla famiglia Mordini, la quale mise a disposizione tutto il piano superiore del casolare per l’allestimento di una infermeria provvisoria».
Due giorni dopo, il 12 ottobre, alla sera tutti feriti da Poggio Termine vennero trasportati a Cavina S.Pietro. Qui la sorte di Mao seguì la vicenda dell’infermeria di Cavina, con l’arrivo dei tedeschi nella mattina del 14 ottobre e il successivo trasporto su un carro buoi a Brisighella. Altre tappe di questo calvario furono dapprima il trasporto da parte dei militi della brigata nera di Faenza a Villa S.Prospero, sede del loro comando, e il successivo trasferimento a Bologna dove tutto il gruppo dei catturati nella battaglia venne fucilato nei pressi del Poligono di tiro.

Riferimento bibliografico: Agide Vandini, Sotto l’ombra d’un bel fior …. La storia di sei partigiani filesi sui monti della Romagna nelle fila della 36ª Birgata Garibaldi, Edit Faenza, 2005.

 

Livio Poletti

Livia Poletti e Livio Venturni
Funerali di Livia Poletti, giugno 1944

Livio Poletti, figlio di Vincenzo e Geltrude Manzoni; nato il 16 novembre 1908 a Imola; ivi residente nel 1943. 3ª elementare. Bracciante.
Sposato Livia Venturini, una delle due donne uccise dai militi repubblichini durante la manifestazione che si tenne in piazza ad Imola il 29 aprile 1944.
Iscritto al PCI.
Nel 1930, quando si erano fidanzati, lui aveva 22 anni, lei soltanto 17. Livio militava nell’organizzazione comunista clandestina, costituita e diretta da un gruppo di compagni più anziani tra i quali c’era Amilcare, il fratello maggiore di Livia. Mentre Livia aveva aderito alla cellula femminile.
Il 22 ottobre 1930, residente a Mordano, venne fermato e trattenuto per alcuni giorni, in occasione della «visita di un altissimo personaggio» a Bologna.
Il 6 dicembre 1930 fu arrestato, unitamente ad altri 88 antifascisti imolesi, tra i quali i fratelli Enrico e Guerrino, per «associazione, propaganda sovversiva e detenzione di armi». Deferito al Tribunale speciale, il 23 giugno 1931 fu condannato a 3 anni, un mese e 5 giorni di reclusione più 3 anni di libertà vigilata. Il 16 ottobre 1931 fu respinta la sua domanda di grazia. Scontò parte della pena nel penitenziario di Alessandria dal quale fu liberato il 7 novembre 1932 a seguito della concessione dell’amnistia per il decennale fascista.
Trasferiteso a Imola nel 1939, negli anni seguenti subì numerosi controlli da parte della polizia, l’ultimo dei quali il 10 maggio 1942.
Il 4 novembre 1943 , con Adelmo Bartolini, giustiziò in via Sassi a Imola Gernando Barani il comandante della 68ª legione della MVSN imolese. Fu arrestato il giorno stesso e trattenuto in carcere per oltre un mese, senza tradirsi. Appena tornato in libertà, salì sull’Appennino imolese ed entrò a far parte dei gruppi che poi daranno vita alla 36ª brigata Bianconcini Garibaldi.
La mattina del 29 aprile 1944 la moglie Livia si recò in piazza ad Imola per prendere parte alla manifestazione organizzata dai Gruppi di difesa della donna per protestare contro le autorità fasciste che non fornivano regolarmente la prescritta razione di grassi alimentari. I militi fascisti spararono, colpendo Maria Zanotti e Livia Venturini. Maria morirà subito dopo, Livia spirerà il 13 giugno, dopo 45 giorni di dolorosa agonia.
Dopo la morte della moglie, Livio, da tempo in clandestinità, chiese di raggiungere la 36ª Brigata Garibaldi, che operava sulle montagne dell’Appennino imolese-faentino. Fu accontentato. «Dopo la morte di mia madre – racconterà la figlia Vanda, allora giovinetta – rividi mio padre ancora pochissime volte. Una mattina mi disse che partiva per la brigata. Lo accompagnai per un tratto di strada. Ci lasciammo con un forte abbraccio. Lo vidi allontanarsi così, senza pensare che forse non l’avrei più visto. Quando al termine della guerra, nell’aprile 1945, i suoi compagni della trentaseiesima tornarono, io aspettavo anche lui. Solo allora mi dissero la verità: che mio padre era morto, falciato da una raffica nazista».
Proprio sui monti tra le valli del Senio e del Lamone, Livio visse infatti la sua ultima giornata. Raggiunta la formazione, Poletti era stato aggregato alla compagnia comando con mansioni di magazziniere. Il comandante della brigata, Luigi Tinti, «Bob», dopo essersi consultato il 9 ottobre coi comandanti di compagnia, aveva deciso di tentare lo sfondamento delle linee tedesche per raggiungere l’Italia liberata.
La compagnia comando si era attestata a Ca’ di Gostino, nei pressi della chiesa di Santa Maria in Purocielo. Ma alle sei del mattino dell’11 ottobre 1944, secondo giorno di battaglia, una colonna composta da 400 soldati tedeschi, saliti nottetempo da Brisighella e Fognano, investì Ca’ di Gostino, difesa da non più di 30 uomini. Dopo una strenua resistenza, «Bob», con alte grida, chiamò a sé i superstiti è ordinò la ritirata verso Piano di sopra. Il ripiegamento avvenne sotto un intenso fuoco nemico e Livio fu tra quelli che non ce la fecero.
A Liberazione avvenuta, il 21 ottobre 1945, le bare con le salme di Livia e di Livio vennero trasportate con le altre dalla piazza del municipio di Imola al cimitero del Piratello e tumulate nel sacrario dei Caduti della Resistenza, una accanto all’altra.

Bruno Pirazzoli, Tom

 

Bruno Pirazzoli, «Tom», figlio di Giacomo e Beatrice Musi; nato il 3 giugno 1918 a Imola; ivi residente nel 1943. Barbiere.
Amico di Giovanni Nardi, fece parte del gruppo di sei ragazzi – tutti ventenni che già avevano fatto parte della «guardia nazionale», l’embrionale formazione giovanile promossa dal Pci per il recupero delle armi abbandonate dalla divisione «Celere» in dissoluzione – che, subito dopo l’8 settembre 1943, decise, in disaccordo con il PCI imolese, di recarsi in Istria per partecipare alla lotta di liberazione. Di quei sei solo Nardi e Pirazzoli, a fine ottobre, fecero ritorno.
Nel gennaio 1944 decise di entrare nel movimento partigiano operante sull’Appennino tosco-emiliano. Militò nella 36ª brigata Bianconcini Garibaldi, con funzione di commissario politico di compagnia.
L’11 ottobre si trovava al Piano di Sopra. Beppe Campanelli nel suo libro “Nè paga né quartiere” descrive così il momento che segnò la morte del commissario Bruno Pirazzoli (Tom): «mi vien voglia di fumare, una voglia feroce. Riesco a farmi una specie di sigaretta con briciole di non so che cosa che trovo rovesciando una tasca e con un pezzo di carta. L’ho appena accesa che entra Tom, ridente, come trasfigurato, con lo sten in mano, i riccioli corti che gli cadono sugli occhi: “Carogna, tu fumi! … Dammi, ti porto la cicca, ti giuro … Faccio un salto al pozzo, pare che vengano ancora …”. Non pare. Vengono. Raffiche furiose di mitra, colpi sgranati di fucile, urla irose in tedesco: “Worwarts! Worwarts!”. Ancora sono respinti. Ma Tom non mi porta la cicca: l’hanno preso alla gola e al petto. Lo trascina dentro Bob che, da sotto, mi chiama; ma appena mi chino a guardarlo, il nostro commissario dà l’ultimo respiro in un gorgoglio di sangue. Uno si butta sull’aia spazzata dalle raffiche a recuperare il suo sten».
Anche Leonardo Visani, diciottenne contadino mezzadro abitante nella casa, ha lasciato una testimonianza su quanto accaduto: «iI mattino del giorno 11, appena giorno, mia madre svegliò all’improvviso noi e i partigiani, gridando che venivano i tedeschi. Si sentiva urlare e sparare fuori della casa. Dopo qualche minuto arrivarono nella cucina Bruno e Bob, che era il comandante di tutti i partigiani. Aveva una coperta sulle spalle e, con la voce affannata per la salita, gridava ai partigiani che si dovevano preparare. Disse che i tedeschi avevano attaccato Ca’ di Gostino, che Attila era morto presso la Chiesa di Purocielo e che i tedeschi ci erano già addosso. Un po’ alla volta arrivarono anche gli altri del comando, bersagliati dalle mitraglie su per la salita, ed anche altri partigiani da una casa vicina, chiamata casa Marcone.
Da quel momento cominciò una sparatoria fortissima. I tedeschi venivano su dal fiume e Bob cercava d’insegnare i punti e le finestre più adatti per colpirli. Non posso dire quanto è durato il combattimento, perché quelli sono momenti brutti e non si può pensare molto. Io ero rimasto in cucina con una quantità di partigiani e coi prigionieri. Guardavo fuori dalla finestre e vedevo che i tedeschi sparavano al sicuro, dietro buoni ripari della terra, senza farsi vedere. A cinque o sei metri dalla finestra, tra il pagliaio e il pozzo, c’era il commissario Tom con degli altri. Lo guardavo con attenzione perché sparava un po’ col mitra e un po’ col fucile e mi sembrava molto sicuro del fatto suo. All’improvviso l’ho visto irrigidirsi, mentre qualcosa si staccava dalla sua schiena: era stoffa insanguinata ed i proiettili l’avevano colpito sotto il collo. L’ha seppellito più tardi mia madre, quasi nello stesso punto in cui era caduto».