Sante Vignuzzi, Tonio

Sante Vignuzzi, «Tonio», figlio di Apollinare e Flora Rosetti; nato il 24 febbraio 1926 a Ravenna, ivi residente nel 1943. Maestro elementare.
Entrò nella resistenza nel gennaio 1944 per non rispondere alla chiamata delle armi della RSI.
L’11 ottobre 1944, durante la battaglia, si ritrovò nei pressi di Ca’ di Monte Colombo ferito con una gamba straziata. Insieme a lui, in un avvallamento di terra rossa, si radunarono altri partigiani. Tra loro Osvaldo Bianchi; Rico, partito da Ravenna insieme a Tonio e anche lui ferito. Amedeo, infermiere della compagnia e anche lui presente nel gruppo immobilizzò la gamba straziata di Tonio con dei rami.
I due partigiani non erano in condizioni di poter essere trasportati e chiesero ai loro compagni di sganciarsi, aggiungendo l’implorazione di essere uccisi per non cadere nelle mani dei tedeschi. I compagni si allontanarono lasciandoli nascosti nella speranza che i tedeschi non li trovassero, ma il terreno fu invece battuto palmo a palmo dalle truppe tedesche. Trovarono il luogo dove i due partigiani avevano preso rifugio e li trucidarono immediatamente sul posto.

Ugo Ungania

Ca’ di Gostino, estate 1939. Gaspare e Ugo Ungnaia (in piedi), Angiola Ungania, Antonio e Maria Rossi (seduti).

Ugo Stefano Ungania, da Antonio e Maria Rossi; nato il 21 giugno 1920 a Palazzuolo sul Senio (FI). Dal 1843 al 1846 la sua famiglia è a mezzadria in Ca’ di Gostino.
Il padre Antonio quando si sposò con Maria andò ad abitare a Fontanelle di Sommorio. Dopo di che la vicenda divenne una vera e propria odissea sull’Appennino: Campalbuio di Badia di Susinana, Tramonti di Fontana Moneta nel 1935, Pian di Volpore di Fontana Moneta, Canova di Presiola, Cà di Baudo di ValNera, Mandria di Popolano nel 1940, infine Cà di Agostino dal 1943 al 1946.
Antonio e Maria ebbero quattro figli: Domenico, Gaspare, Ugo e Angela. A lavorare i terreni erano in quattro: il babbo Antonio e i figli Domenico, Gaspare e Angela, mentre la madre Maria faceva i lavori di casa.
Antonio, Maria e Domenico erano analfabeti, Gaspare che sapeva fare la firma, Angela sapeva leggere e scrivere come poteva.
Ugo ha studiato fino alla terza elementare, è stato arruolato nel corpo dei carabinieri ed è riconosciuto come partigiano dal 1º maggio 1944. Anche suo fratello Gaspare, nato il 4 maggio 1913 è stato partigiano dal 26 aprile 1944 fino alla fine della guerra.
Sulla morte di Ugo esistono varie versioni e risale comunque alla fine di settembre o ai primi giorni di ottobre 1944. Il fratello Gaspare nella pubblicazione di Ferruccio Montevecchi ha dichiarato che «Ugo venne ucciso per errore da un partigiano al beneficio di Settefonti», ma secondo altre voci, riportate sempre da ferruccio Montevecchi «il partigiano che morì al beneficio non era Ugo ma un altro ex carabiniere».

Teodosio Toni, Tigre

Al centro con il cappello e la pistola alla tempia Teodosio Toni, Tigre, alla sua sinistra il suo caposquadriglia, Aldo Domeniconi Patò, e alla sua destra con berretto e cartucciera Ettore Calderoni, Cow boy.
Parte della terza compagnia del Battaglione Ravenna. Al centro in alto Teodosio Toni, Tigre, con maglione nero con falce e martello. Alla sua destra Ettore Calderoi Cow boy, a sinistra Masò, del Borgo, e Fusel. Sotto da sinistra: Solarolo (Lauro Montanari?), Patò (Aldo Domeniconi) e Pirì (Pietro Ferrucci commissario di compagnia)

Teodosio Toni, «Tigre», figlio di Venanzio e Anna Rossini; nato il 26 marzo 1926 a Faenza (RA).
A Faenza rimase solo pochi anni, perché, quando nel 1933 morì il padre Venanzio, che era stato un attivo militante repubblicano nel periodo prefascista, poi un oppositore clandestino durante la dittatura, sua madre, Anna Rossini, decise di trasferirsi a Solarolo, dove prese residenza in via Gaiano Casanola, portando con sé i tre figli: Elio, il maggiore, nato nel ‘24, Teodosio e Colombo, l’ultimo, del ’28.
La madre Anna Rossini faceva la sarta, ma cagionevole di salute e con la possibilità di la-vorare poco, per cui anche i bambini, per quanto piccoli, dovettero contribuire al sostenta-mento della famiglia e iniziarono a fare l lavoro bracciantile insieme alla frequenza scola-stica. Con la guerra i due figli maggiori dovettero partire e soltanto il più piccolo, Colombo, rimase vicino alla madre, continuando a fare il garzone da contadino.
Elio, a diciannove anni, fu chiamato alle armi e fece appena in tempo a presentarsi a Ro-vereto il 31 agosto 1943, che intervenne l’armistizio e lui con i commilitoni fu prelevato dai Tedeschi, caricato su una tradotta, condotto a Onestein, nei pressi di Danzica, poi a Dor-tmund, dove rifiutò la proposta di entrare nell’esercito di Salò. In seguito a questo rifiuto fu inviato nella zona della Ruhr, destinato al lavoro coatto negli altiforni delle acciaierie lo-cali, uno delle centinaia di migliaia di IMI, “internati militari italiani”, che si videro negare lo status di “prigionieri di guerra”. Privati delle tutele garantite dalla Convenzione di Ginevra, e dunque sottratti alla protezione della Croce Rossa Internazionale furono obbligati al lavoro per il III Reich.
Liberato nel marzo del ’45 dagli Americani, ma seriamente ammalato, Elio fu poi conse-gnato in aprile agli Inglesi. Ricoverato e curato nel Centro Raccolta Reduci di Obermar-sberg, rimase qui fino al settembre ’45, quando rientrò in Italia, affrontando un viaggio in treno di quindici giorni attraverso la Francia, il Frejus e Torino.
Dopo la partenza del fratello maggiore, Teo continuò a lavorare a giornata come braccian-te, ma quando compì diciotto anni, nel marzo del ’44, fu anch’egli chiamato alle armi da uno dei bandi Graziani. Non si presentò, come aveva già fatto in precedenza allorché era stato convocato per svolgere dei lavori a favore dell’esercito tedesco, e decise di prendere contatto con gli antifascisti della sua zona, informandone la madre.
Teodosio iniziò una vita randagia, ospitato dalle famiglie che collaboravano coi partigiani finché, guidato da due staffette, raggiunse l’alta valle del Senio e si presentò il 15 aprile 1944 alla sede del Comando partigiano della 36ª Brigata Bianconcini Garibaldi. Qui fu ac-cettato perché conosciuto da altri partigiani suoi compaesani, che garantirono per lui e venne assegnato alla compagnia di Kaki (il comandante Dato Cavallazzi, che venne poi sostituito da “Ribelle”, Rino Rossi, dopo essere stato ferito il 13 settembre ’44 alla Cano-vazza, durante la battaglia di Castagno).
Il 24 settembre del 1944 il gruppo partigiano del “Biondo” (Gino Agostini), senza avvertire le altre formazioni vicine, sferrò un attacco contro un convoglio tedesco, che trasportava delle salmerie da Fognano, lungo la carrabile della Valletta, in direzione Zattaglia, all’altezza del doppio tornante che collega il Castellaccio al cimitero della Parrocchia di Santo Stefano.
Era l’alba di domenica e la compagnia di Kachi, di cui facevano parte Nino e Teo, ancora dormiva nella stalla delle Torri, quando fu svegliata di soprassalto dal crepitare delle armi da fuoco. Tutti i partigiani si precipitarono fuori e corsero al riparo su una piccola altura si-tuata nei pressi, dove attesero pronti in silenzio, mentre Tigre e Gnaf, in cima, posiziona-vano la mitragliatrice. A un centinaio di metri di distanza, tra la fitta macchia boschiva sotto la collina, intravidero il biancore della strada, un agitarsi di uomini, animali e mezzi, e sentirono rumori confusi di grida umane, versi animali, fischi di proiettili ed armi, infine una scarica di mitraglia. Un colpo giunse fin sull’altura e riuscì a ferire contemporaneamente Teo, trapassandogli entrambe le gambe sopra al ginocchio, e Nino, fracassandogli il tallone.
Solo allora una staffetta trafelata raggiunse la postazione della compagnia di Kachi, per avvertire che gli uomini del Biondo, di stanza in una base ad appena duecento metri dalla loro, avevano assalito e circondato una colonna di soldati tedeschi.
Lo scontro si era concluso vittoriosamente per i partigiani, che erano riusciti a sopraffare i militari germanici, lasciandone alcuni cadaveri sulla strada e catturandone altri feriti, men-tre i restanti tedeschi si erano dati alla fuga, sparando disordinatamente alle loro spalle, abbandonando le loro vettovaglie, armi, cavalli e muli, di cui il Biondo e compagni si erano impossessati.
Era stato proprio uno degli ultimi colpi sparati all’impazzata dai tedeschi in fuga a centrare “Tigre” e “Gnaf”. I compagni trasportarono Teodoro e Nino, che perdevano copiosamente sangue e non erano più in grado di muoversi autonomamente, verso la Torre dei Pratesi, e da lì alla Canonica della chiesa di Cavina S. Pietro, trasformata in infermeria della formazione partigiana, dove furono assistiti e curati da due medici e due infermiere, anch’essi inquadrati nelle file della 36ª Brigata Bianconcini Garibaldi, che nella valle del Sintria aveva le proprie basi.
Ancora zoppicanti e con le ferite appena rimarginate lì rimasero anche durante la battaglia di Purocielo, che gli altri compagni della brigata affrontarono quasi una ventina di giorni dopo, tra il 10 e il 12 ottobre 1944.
Dopo tre giorni di duri combattimenti i partigiani si resero conto che la resistenza era alla fine. Le munizioni cominciavano a scarseggiare, mentre i caduti e i feriti erano decine. Dopo essersi consultato con i comandanti dei reparti, il comandante Bob decise di uscire dalla valle a nord. I feriti più gravi, lasciati nella canonica della chiesa di Cavina (Fognano – RA) furono catturati dai tedeschi aiutati da forze della repubblica di Salò. La sorte dei feriti e dei sanitari rimasti a curarli fu tragica. Dopo un trasporto su un carro buoi a Brisighella, furono dapprima trasportati a Faenza, nella Villa S.Prospero, sede del comando, e il successivo trasferimento a Bologna dove tutto il gruppo dei catturati nella battaglia venne fucilato nei pressi del Poligono di tiro.

(Parte delle informazioni su Teodosio Toni sono tratte dalle pagine dedicate alla fucilazione nei pressi del poligono di tiro di Bologna del 20 ottobre 1944 dei venti partigiani catturati a Cavina nel sito www.memorieresistenti.it)